Boy Erased, la recensione
La cura cristiana dall'omosessualità in Boy Erased è un mondo in cui i singoli esseri umani non sono malvagi ma agiti da qualcosa di superiore
La maniera in cui Joel Edgerton gestisce tutta la prima parte di Boy Erased traccia un’interessante equivalenza tra omosessualità e droga. Il centro è come le comunità di recupero e la reazione dei genitori di Jared non è furiosa ma preoccupata, non è arrabbiata o rancorosa, non tratta l’omosessualità come una scelta ribelle ma come una piaga su cui lavorare assieme al figlio. Per l’appunto come la droga.
Così Jared viene portato nel centro (gestito da un istitutore interpretato da Joel Edgerton stesso) e lì incontrerà altri come lui. Sappiamo bene cosa stia accadendo perché conosciamo cosa il cinema ama guardare in queste storie. Quindi l’istitutore sarà al tempo stesso mellifluo e cinico, lo spietato villain di un film che più che raccontare l’insopprimibile esigenza di essere se stessi (quello lo faceva il simile The Miseducation of Cameron Post) mira a raccontare un sistema intero che coinvolge uomini di buona volontà trasformati in mostri spaventati da tutto. E lo fa attraverso le vittime. I ragazzi. Lo fa con uno stile che spezzetta il tempo e viaggia avanti e indietro nel tempo senza che davvero ce ne sia bisogno o beneficio.
Boy Erased non è propriamente un film dalla fantastica complessità, più un’opera a tesi ben confezionata che va dritta verso il suo obiettivo e dà soddisfazione a chi desidera più averne che vedere un film che lo stimoli o lo metta in crisi. Solo Russel Crowe e Nicole Kidman, nel ruolo troppo defilato dei genitori, regalano qualcosa di davvero interessante. Il film, purtroppo, non è su di loro eppure sono loro i veri protagonisti, poiché loro è l’arco narrativo vero, loro hanno un conflitto interessante, loro cercano disperatamente di essere migliori.