The Bourne Supremacy

Il sequel di Bourne Identity è un film pericoloso. Non mi riferisco alla sua trama, fatta di spie, doppiogiochismo, inseguimenti spericolati e omicidi facili.

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Parlo invece dell’ottimo riscontro di critica e di pubblico che ha avuto negli Stati Uniti.
Facile intuire le ragioni. Sembrerebbe trattarsi infatti di un prodotto cinico, per adulti, come se ne facevano negli anni settanta.
L’apparenza c’è. La gente (anche innocente) muore. Chi dovrebbe garantire la sicurezza del mondo sembra preoccuparsi più per la sua poltrona. E anche i personaggi positivi sono tutt’altro che impeccabili.
Ma purtroppo, per quanto si possa voler credere a questa patina, rimpiangendo magari i bei tempi di Hal Ashby e William Friedkin, è impossibile non notare tutte le pecche dell’operazione.

Se già il primo capitolo aveva momenti di grande inverosimiglianza (ma almeno si faceva apprezzare per il tono asciutto e forte della storia), qui siamo ormai nel campo della pura fantascienza.
Il piano per incastrare Bourne fa acqua da tutte le parti, considerando che le prove per incastrarlo sono troppo evidenti per non far venire dei sospetti anche al più ingenuo degli spettatori (figuriamoci quindi agli specialisti della Cia...)
Il cattivo che trama nell’ombra è telefonatissimo e la scena in cui si rivela “ufficialmente” è una delle più assurde del film (anche per come ci si è arrivati e per quello che comporta nel proseguimento della storia).
Alcuni momenti sfiorano poi il ridicolo involontario, come l’esiralante (ma poco gratificante) descrizione della polizia italiana fatta da un agente del consolato americano.

E vogliamo parlare di Bourne? La sua amnesia inizia a stancare, facendo pensare che si tratti di materia più adatta ad uno psicanalista che ad una sceneggiatura. E il suo personaggio ormai non ha senso. Da una parte, continua ad avere le sue straordinarie abilità di combattimento, di astuzia e di conoscenza delle lingue straniere.
Dall’altra, sembra incredulo di fronte agli avvenimenti che lo circondano. Non riesce a capire che l’hanno incastrato (tanto da essere sorpreso nel momento della rivelazione), non afferra minimamente le regole del gioco, ha momenti di pietà eccessivi.
Un comportamento che sarebbe inspiegabile anche per un semplice lettore di Le Carré, figuriamoci per una spia-killer professionista. Insomma Jason, è la strada che ti sei scelto, potevi fare un altro lavoro se non ti convinceva la tua occupazione...
Così come si poteva evitare il pacchiano (e senza senso) tentativo di redenzione finale, che lo trasforma in un samaritano misericordioso.

E poi che dire degli altri attori? Decisamente sprecati. Non mi riferisco tanto a Franka Potente (che non ho mai amato, così come detesto il regista che l’ha lanciata in Lola corre, Tom Tykwer), ma a Joan Allen e Brian Cox, che meriterebbero ben altro rispetto ai ruoli stereotipati che sono stati loro concessi.

Peccato, perché Paul Greengrass (Bloody Sunday) aveva iniziato con il piede giusto, con uno stile fatto di camera a mano, molto efficace nei primi minuti.
Ma poi tutto si risolve nel solito montaggio frenetico, che rovina anche le interessanti scene d’inseguimento.

Insomma, non vi aspettate da questa pellicola nulla di più di un popcorn movie ben orchestrato e lasciate perdere chi cerca di spacciarvelo per qualcosa di diverso

E se si può essere contenti per il successo della serie, che permette ad un buon attore come Matt Damon di tornare sulla cresta dell’onda, un consiglio per il terzo (inevitabile) capitolo bisogna darglielo: migliorare la pronuncia della lingua russa, decisamente approssimativa per una spia di quel livello...

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