The Bourne Legacy, la recensione

Coerente, filologicamente corretto eppure determinato ad andare in una nuova direzione. Se c'è un modo per fare film di Jason Bourne senza Jason Bourne è questo...

Critico e giornalista cinematografico


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Prima da solo con The Bourne Identity, poi in coppia con Paul Greengrass (per i secondi due film) Tony Gilroy ha contribuito a cambiare tutto, trasformando un personaggio letterario in un personaggio filmico diverso dal solito, rifiutando diversi clichè del cinema, inventandone di nuovi e andando a cercare quale sia, nella modernità, lo spazio in cui si inserisce una figura fuori dal tempo come quella della spia.

Contemporaneamente Greengrass prendeva questo materiale per dargli una nuova forma, tutta montaggio rapido e macchina a mano, così da ottemperare da una parte alle regole del cinema d'azione e dall'altra a quelle (recenti) del cinema di guerra.
Il risultato sono tre film in crescendo in cui guerra e spionaggio non sono poi tanto diversi, in cui l'agente segreto smette di essere un uomo di mondo (colui la cui personalità sa imporsi in qualsiasi contesto) e diventa un cosmopolita senza identità.

Finito il ciclo ufficiale di Jason Bourne ora ne inizia un altro in cui Tony Gilroy sta dietro la macchina da presa, scrive assieme ad un fratello e affida all'altro il montaggio. L'idea è di non allontanarsi da quanto conquistato con i film precedenti nonostante fotografia e montaggio non siano più affidati alle medesime persone. Così The Bourne Legacy ha il passo svelto, il montaggio rapido e la frenesia degli altri film pur non essendo nemmeno lontanamente inesorabile, preciso e chiaro come i film di Greengrass. Ma quel che perde in forma lo guadagna in scrittura.

Il nuovo agente segreto al centro della storia ha poco a che vedere con Jason Bourne, a partire dalla trovata della memoria persa. Siamo più dalle parti dell'ingegneria comportamentale, programmi in cui gli agenti sono continuamente drogati per aumentarne le prestazioni e indirizzarne il comportamento. Come sempre il programma ad un certo punto va chiuso in fretta e furia, sbarazzandosi sommariamente di tutti gli agenti, uno di questi però capisce tutto e sfugge alla morte. Da qui si parte e se Jason Bourne cercava di capire chi fosse, il nuovo agente segreto dai mille nomi cerca di mantenere l'identità che ha conquistato.

Gli amanti della serie noteranno qualche concessione in più alle iperboli d'azione rispetto al solito e una minore attinenza alla plausibilità, ma è anche indubbio che le motivazioni che spingono l'agente di Jeremy Renner siano molto più solide ed empatiche che in precedenza. Gli si crede di più, ci si identifica un po' di più.

Messi da parte i grandi intrighi, la nuova serie di Bourne (senza Bourne) ha più a che vedere con un disperato sforzo di sopravvivenza, una lotta contro l'oblio e la conquista di una vita migliore. In sostanza si allontana molto dallo spionaggio sia formalmente che contenutisticamente. Infatti le molte corse per sfuggire ai mille occhi della situation room dalla quale Edward Norton suona le trombe della caccia, sono le stesse che Tony Gilroy corre per sfuggire allo spionaggio puro o all'intrigo governativo. Il regista/sceneggiatore, al pari del suo personaggio, cerca in ogni modo una liberazione dagli intrighi internazionali della precedente gestione (l'inizio del film si sovrappone con la fine di The Bourne Ultimatum) per guadagnare una vita nuova più intima e personale. Non a caso stavolta la presenza femminile è molto più utile e pregnante del solito.

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