Boston: Caccia All'Uomo, la recensione
Grandioso, colmo di storie piccole nella storia grande e capace di passare da genere a genere, Boston: Caccia All'Uomo è un colosso di propaganda
Il prima, il durante e il dopo messi in ordine cronologico, la preparazione, i momenti di panico e di morte durante l’attentato e poi, come dice il titolo italiano, la caccia all’uomo che è seguita. Ci sono vittime trattate come coprotagonisti, protagonisti che ad un certo punto sembrano marginali, non più eroi indomiti responsabili di tutto ma pedine come altre che fanno la loro piccola parte e poi c’è un incredibile personaggio di J. K. Simmons, poliziotto che sembra non fare niente per tutto il tempo, lo vediamo di quando in quando preso da faccende minori in piccole scene apparentemente svincolate dal resto e poi, al momento cruciale, arriva a fare la propria parte. Un monte di scenette preparatorie, di attimi quotidiani per raccontare come un atto eroico possa esplodere tutto insieme, per raccontare la capacità e il coraggio di essere al servizio della legge in un attimo in cui si concretizza tutto. Sono tecniche da cinema d’autore, qui al servizio del cinema più commerciale possibile.
Così potente ed energica è la narrazione in Boston: Caccia all’Uomo che si permette ad un certo punto anche di andare in deroga a se stessa, di cambiare, filtro e lenti, di diventare iperrealista, digitale a bassa qualità per un momento di pura guerriglia metropolitana che sembra preso dal cinema di Michael Mann visto attraverso la spiccia brutalità di Berg.
Alla fine ci sarà la celebrazione degli uomini veri dietro gli attori, con le foto, i nomi e le immagini reali, ci sarà ovviamente il disprezzo per gli attentatori, i loro usi, i loro costumi e la loro idiozia al di là di qualsiasi possibile realismo, ma su tutto in questo film retorico al massimo regna una capacità di fare cinema capace di far passare in secondo piano le piccolezze, riempiendo gli occhi e la testa di un sentimento e un desiderio di esaltazione più grandi.