Bosch (prima stagione): la recensione

La recensione di Bosch, poliziesco di Amazon dai romanzi di Michael Connelly

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Tra la fine dello scorso anno e l'inizio del 2015 Amazon Studios è diventata insospettabilmente uno dei network da seguire. Dopo qualche incertezza è arrivata la conferma, anche dalla critica, con Transparent, a cui è seguito l'interessante Mozart in the Jungle. Molto tempo passerà prima di vedere trasformato in una stagione completa il pilot di The Man in the High Castle, che ha ricevuto il via libera circa un mese fa insieme ad altri prodotti, ma fino ad allora le alternative non mancano. Tra queste spiccava, anche per la forte attesa, il poliziesco Bosch, basato sui romanzi di Michael Connelly, la cui prima stagione – ancora non si hanno notizie su un rinnovo – è stata rilasciata lo scorso 13 febbraio.

Hieronymus Bosch, nome ispirato dal celebre pittore fiammingo, è un poliziotto tutto d'un pezzo, solitario, insubordinato, fedele ad una propria morale, spinto in avanti quasi esclusivamente dal lavoro. Mentre deve rispondere in aula dell'uccisione un malvivente – forse avvenuta a sangue freddo – dalle colline che circondano Los Angeles riemergono i resti di un cadavere. Si tratta di un bambino, martoriato, ucciso e sepolto circa 25 anni prima. Mentre si fa strada tra problemi personali e difficili relazioni, Bosch deve cercare di risalire all'origine dell'omicidio, ma nel farlo si trova ad avere a che fare con un serial killer che instaura con lui un malsano rapporto, spingendolo verso la strada dell'ossessione e giocando sul sottile filo che separa giustizia e vendetta.

Dunque, Bosch è un poliziesco. Uno di quelli classici, che ripropone le regole del genere senza giochi né variazioni, e che presenta al pubblico uno schema e personaggi rodati e quindi immediatamente familiari. C'è il poliziotto dall'infanzia turbolenta, allergico alle regole, la pecora nera del dipartimento per certi versi, che però ottiene i risultati migliori, anche se con mezzi non sempre giustificati. C'è il capo che cerca di tenerlo a bada (Lance Reddick, uno che dà l'impressione di interpretare sempre lo stesso ruolo, che però gli riesce bene), c'è il distacco dalla famiglia, c'è la relazione di cui intuiamo da subito gli sviluppi, c'è l'assassino psicopatico che gioca con il detective tempestandolo di chiamate. A voler essere più buoni li si chiama topoi, a voler essere più cattivi li si chiama cliché.

Bosch non vuole rappresentare una svolta nel proprio genere, non ha le vette creative che poteva proporre un True Detective o, più simile ancora, un Luther. Propone un intreccio relativamente semplice, un ritmo costante senza particolari picchi o cadute, e al termine dei dieci episodi – numero perfetto, in linea con gli altri prodotti del network – porta a casa tutte le risposte, senza particolari finestre aperte su un prossimo, eventuale, anno. In tutto questo si avvale si un cast davvero notevole, nel quale spicca senza dubbio il protagonista Titus Welliver. Appariva in Lost solo per tre episodi, eppure quasi tutti riconduciamo la sua carriera all'interpretazione del mostro di fumo. Bosch, dopo Deadwood, rappresenta uno dei suoi ruoli più importanti, e Welliver lo interpreta con grande forza e carisma, portando sulle sue spalle il peso dell'intero show.

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