Boris 4: la recensione di tutti gli episodi della quarta stagione

La quarta stagione di Boris nei suoi 8 episodi con il suo arco narrativo contraddice uno degli assunti base della serie e chiude un'era

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di tutti gli episodi della quarta stagione di Boris

I primi due episodi della quarta stagione di Boris sono un inizio che non rispecchia esattamente quello che verrà dopo. La stagione completa compone un arco narrativo che come sempre racconta del tentativo di René Ferretti di creare una serie bella, del committente (la rete prima, la piattaforma ora) che vuole controllare e fare in modo che il risultato sia in linea con le sue aspettative (correggendo di continuo il tiro di René) e di tutto il mondo del set che complotta contro di lui in varie maniere per esasperarlo, fino a spingerlo là dove tutti sanno che finirà: nella merda. Era così anche il film, una lenta discesa da un progetto nobile e pieno di desiderio di qualità fino alla più becera uscita natalizia, accozzaglia di tormentoni e temi d’attualità spicciola.

Stavolta l’impresa è quella di realizzare una serie per una piattaforma quindi una produzione internazionale. Non la tv di servizio pubblico di qualità (Medical Dimension), né il grande progetto storico (Machiavelli), né ancora un film d’autore ma una serie italiana come quelle famose nel mondo, con committenza straniera e una storia conosciuta da tutti: il Vangelo. René è l’uomo scelto per conciliare le idee dei produttori (i peggiori possibili Corinna e Stanis) con quelle della rete, personificata dalla temibile Allison, sempre sorridente ma con la capacità di trasmettere il costante rischio di taglio dei fondi e il terrore di una politica a tolleranza zero.

Come il film di Boris anche questa stagione funziona come una grande rimpatriata in cui quasi ogni episodio vede l’ingresso (per quella sola puntata) di un personaggio storico che è stato parte occasionale del cast. Martellone, la figlia de Mazinga, Karin, la figlia di René e ovviamente Mariano sono solo alcuni tra i molti. Alla stessa maniera il fan service è onnipresente. Quasi tutte le frasi iconiche di Boris sono menzionate, evocate, se non proprio usate (si veda la solennità con cui viene premuto F4 o quella con cui si menziona Favino). È un prodotto per fan che rimette in scena i classici per trovargli un nuovo vestito nell’era delle piattaforme ma è inevitabilmente azzoppato dal parlare del suo stesso committente.

Quella che nelle prime tre stagioni era chiamata soltanto la “rete”, cioè la RAI, era all’epoca un soggetto terzo, Boris andava in onda su Fox, quindi bouquet SKY, e poteva andare giù durissimo sulla maniera in cui la RAI e in particolare la parte che produce fiction incarnasse il peggio del paese, ne fosse espressione quando non proprio motore. Era durissimo non solo con i prodotti RAI (che è facile), ma proprio con l’etica che c’è dietro, la mentalità da azienda pubblica e il modus operandi di chi produce per loro da sempre. L’anima più profonda degli italiani. Ora invece la troupe di cialtroni produce per una piattaforma che è sì molto dura ma non è il regno del peggio, non è il ricettacolo del massimo schifo né l’espressione dell’arte peggiore dell’umanità. Loro lo sono, la piattaforma vorrebbe qualcosa di bello in realtà e la foglia di fico dell’algoritmo (grande nemico che comanda tutti senza che nessuno sappia cosa vuole) non regge. Il finale anzi, nonostante continui a prendere in giro il fare delle piattaforme, ne afferma la sostanziale ragionevolezza, e anche tutto quello che accade alla troupe è assurdo per loro (che sono delle bestie) ma in realtà sensato.

Se un senso dovessimo trarre da questa quarta stagione di Boris forse è quello opposto a ciò che si poteva immaginare e cioè che con l’arrivo delle piattaforme c’è spazio per la qualità. Il contrario delle precedenti tre stagioni come ricorda René ad un certo punto in questa quarta quando dice: “Una volta l’ing. Cane mi disse che in Italia ci sono due tipi di pazzi: chi si crede Napoleone e chi vuole cambiare la televisione italiana”. Lo dice per spiegare a qualcuno che non lo sa che non è possibile farlo, che “siamo come un re Mida al contrario”. E in una confusissima chiusura (che include una parte musicale) si affermerà però esattamente quello, cioè che la televisione italiana è stata cambiata e (si capisce dalle foto e dalle scritte dopo il termine della serie) è stata cambiata proprio da Boris e dai suoi autori. Una conclusione a spanne definitiva e ottimistica, probabilmente in parte vera, di certo molto autoassolutoria. Davvero l’ultima cosa che ci si poteva attendere.

Per arrivarci queste 8 puntate mettono su schermo di nuovo il miglior umorismo possibile, con un po’ meno di amalgama e un po’ meno di coesione ma un po’ più di individualità, uno in cui molti sembrano andare per conto proprio (Sermonti e Corrado Guzzanti su tutti) con risultati alterni ma lo stesso di livello alto. Boris che parla di Boris, che è consapevole del proprio successo e della forza di certe caratteristiche sulle quali spinge senza pietà, perdendo l’equilibrio stranamente perfetto delle prime tre stagioni, in cui tutti avevano le loro personalità ma parevano parlare con una voce unica, e ritrovando in fondo l’anima sconclusionata e cinica di sempre. Rimane da chiedersi verso chi sia indirizzato questo cinismo. Prima era contro i membri della troupe che eravamo noi, al di là di ogni dubbio, membri di una società italiana guardati nel loro peggio, la parte nera che è dentro ognuno. Oggi invece quel cinismo è diretto contro quegli stessi membri della troupe che sempre meno sembrano paradigmatici, non sono più i campioni di Gli occhi del cuore, fiction fiore all’occhiello del servizio pubblico, ma qualcuno che lotta per rimanere rilevante in un mondo che li ha resi vecchi e passati.

Per questo non è più una serie pessimista (anzi!) perché quelle persone non sono più la regola, ma i mutamenti li hanno messi fuori dai giochi e per essere ancora accettati devono mascherarsi (ed è significativo quale sarà alla fine il progetto che uscirà fuori dagli sforzi di René). Il simbolo più eclatante forse è Lopez, prima delegato di rete (cioè il tramite tra i potenti, di cui era lacchè, e la troupe che dominava usando l’arma del terrore) che ora è ugualmente tutto e niente, pronto a cambiare idea a seconda della convenienza, concentrato solo a sopravvivere ma tutto a favore della troupe e della produzione che deve mantenere in piedi. Non ha come obiettivo la qualità (come René) ma lo stesso è anche lui un pieno Fantozzi di questa stagione perché lotta contro un potere a cui non è più legato e che non conosce bene, in un tempo che non capisce più.

C’è quindi da essere soddisfatti della quarta stagione di Boris, perché il suo obiettivo di far umorismo sensato, divertente e intelligente lo porta a termine, ma c’è anche da sperare che tutto finisca qui, perché davvero non c’è conclusione migliore di questo finale che contraddice tutto quello che Boris ha rappresentato di fatto chiudendo un'era e che, forse proprio per questo, è un ultimo alito di speranza in una serie che speranza non ne aveva. L’affermazione che se noi possiamo cambiare, se la televisione italiana ha compiuto quell’impresa impossibile di cambiare, allora tutto il mondo può cambiare.

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