Borderlands, la recensione

Non ci si può davvero lamentare di quel che è questo adattamento di Borderlands. Quando si tira in ballo Eli Roth questo è il risultato

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Borderlands, il film di Eli Roth con Cate Blanchett, tratto dall'omonimo videogioco, in uscita il 7 agosto al cinema

Si potrebbe parlare di Borderlands e dei suoi infiniti problemi, nonché dell'idea misera di cinema che c’è dietro, anche solo discutendo della parrucca che indossa Cate Blanchett. Lei, l’avventuriera simil-cacciatrice di taglie, dura e spietata, senza sentimenti per mascherare di esserne in realtà piena, che in cambio di un lauto compenso viene incaricata di recuperare una bambina su un pianeta/discarica che conosce molto bene, è Lilith. Il suo look dovrebbe essere in linea con un’estetica che ruba il rubabile da Mad Max e invece somiglia a una ragazza di un paesino di provincia della Russia sovietica degli anni ‘60, appena uscita da un parrucchiere di basso livello. Sono esattamente i capelli che nei videogiochi da cui tutto è tratto ha il personaggio che lei interpreta, uguali, e qui sta il problema, che senza troppa fatica si può allargare a tutto il resto del film: la fedeltà.

Borderlands è fedele a un videogame scarsamente narrativo. The Last of Us, la serie, ha mostrato che ottimo lavoro si possa fare di riscrittura su un videogioco narrativamente già sopraffino, figuriamoci quindi cosa si poteva fare con questo, che non ha proprio nel racconto la sua arma più affilata! Invece, tutto è stato affidato a Eli Roth, che sparge la sua estetica priva di gusto su tutto il film come polverina magica. È quel tipo di estetica povera che in un film come Thanksgiving diventa subito caratteristica e in uno come questo ammazza ogni credibilità. Quando entrano in scena alcuni ragazzini derelitti, per esempio, sono truccati, vestiti e sistemati così male che sembrano usciti da un film postapocalittico italiano degli anni ‘80. E la cosa peggiore è che probabilmente Eli Roth è felicissimo di questo accostamento!

Come sempre, Roth non vuole fare un film di oggi, ma uno di ieri. Non vuole adottare uno stile molto moderno (che è quello di cui avrebbe bisogno un film come Borderlands), ma semmai quello delle storie e dei film che lui ama, che si alimentavano di una certa povertà, trasformandola in virtù (o almeno in personalità). Questo principio applicato a un film che invece i soldi li ha e li mostra, senza la coolness del suo cinema di riferimento (l’exploitation più becera) e senza che anche la scrittura la assecondi o senza quell’incredibile giocosità lieta nella regia che ha Tarantino, nei cui film, anche nei momenti peggiori, si è talmente coinvolti nel gioco che è guardare e fare un film da passare volentieri sopra tutto, non solo abbassa drasticamente l’età del pubblico d’elezione, ma abbassa soprattutto la godibilità.

Non c’è niente di male a godersi un bel film per tredicenni se è pensato e concepito con proprietà di linguaggio e capacità di divertirsi (quel piccolo capolavoro che è The Adam Project lo ha dimostrato recentemente). Sono non pochi i film americani, oggi, che sembrano pensati per un pubblico di quell’età e tuttavia, a furia di buon cinema, riescono a conquistare tutti gli altri. Borderlands invece è la copia della copia della copia di idee altrui che già nella loro prima iterazione venivano considerate poco più di un pretesto. Così, quando alla fine, per chiudere, fa ridere tutti i personaggi insieme perché uno di loro ha fatto qualcosa di goffo, non è la citazione che Roth pensa che sia ai finali dei telefilm di una volta, è l’ennesimo momento in cui al pubblico corre un brivido lungo la schiena di imbarazzo per quello che sta guardando.

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