BoJack Horseman (sesta stagione, parte 2): la recensione

BoJack Horseman arriva a fine del suo percorso, addio ad una delle serie migliori degli ultimi anni

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BoJack Horseman (stagione 6, parte 2): la recensione

C'è qualcosa di sorprendentemente felliniano negli ultimi episodi di BoJack Horseman. Non che non ci fosse mai stato, ma nel tempo la serie è stata inquadrata soprattutto come ultimo tassello di un filone riconoscibile nella tv di prestigio contemporanea. Un progetto che ha come bizzarro protagonista un cavallo antropomorfo che nient'altro è se non l'ennesima incarnazione dell'antieroe tutto americano. Un ruolo che in tv era stato di Don Draper (Mad Men) e prima ancora di Tony Soprano (I Soprano), ma che ben si adatta alle turbe esistenziali dell'attore alcolizzato, perennemente in conflitto con se stesso, specchio di un mondo dello spettacolo che è artificiale per definizione.

BoJack Horseman – personaggio e serie – è tutto questo, ma anche di più. Come i suoi illustri predecessori, non si limita ad essere un archetipo dell'insoddisfazione cronica, ma il suo conflitto più grande passa attraverso la definizione di se stesso. Un percorso che questi otto episodi finali della serie Netflix non portano necessariamente a conclusione, semplicemente perché, al di là di quel che raccontano, la vita non si interrompe con i titoli di coda. Eppure, in una risoluzione forse più accomodante di quel che era lecito chiedere, lo show lascia spazio per una relativa sicurezza per il futuro. Senza dubbio per una maggiore consapevolezza di sé e degli altri.

Il blocco di episodi in realtà è solo la seconda parte della sesta stagione della serie, e come tale è nettamente più riuscito della prima, di cui rappresenta il compendio necessario. Quasi tutti i percorsi individuali giungono ad un loro compimento e, anche quando non lo fanno, è difficile imputare alla serie le stesse mancanze che avrebbe la vita vera. Queste ultime sono le puntate di BoJack insegnante universitario, che cerca di darsi una routine serena, di Diane, eterna aspirante scrittrice, di Carolyn, madre e professionista, di Mr. Peanutbutter, che deve riappacificarsi con la sua compagna, di Todd, personaggio che si interroga di meno (e forse quello per cui la felicità è più semplice da raggiungere).

Come nelle due grandi serie citate, anche BoJack Horseman nell'avvicinarsi al finale corteggia sempre più un linguaggio onirico e simbolico. A questo punto, si tratta di una soluzione stilistica attesa e riconoscibile, tanto da essere utilizzata di recente anche nel finale di Mr. Robot (serie che per certi versi ricade nella stessa categoria). Per qualche motivo, l'ennesimo tentativo di riemersione del protagonista è infatti ricacciato sul fondo, e un nuovo baratro rischia di aprirsi per lui. Nell'episodio The View from Halfway Down, giunge l'elaborazione definitiva tra sogno e allucinazione consapevole.

La storia qui sintetizza nella vicenda il tormentone della vista dal fondo della piscina che chiude da sempre la sigla, e che è origine e fine di tutto perché è anche punto di vista soggettivo. Nel farlo, la serie si guarda dal di fuori, così come BoJack può guardare se stesso, ma al tempo stesso omaggia l'immagine iniziale di Viale del tramonto (con cui condivide davvero tanto). BoJack quindi come il soggettista Joe Gillis, ma – finalmente – anche come il Guido Anselmi di . Stritolato da un mondo dello spettacolo che gli ha dato tutto e che pretende tutto, celato dietro maschere di maschere, ruoli dentro e fuori dalla scena, BoJack/Guido sogna di sé.

"Tutto è di nuovo confuso, ma questa confusione sono io...".

Le donne della vita del regista felliniano sono i fantasmi delle persone morte nella vita di BoJack. Ne rappresentano la causa del disagio, la scusa per i propri errori, una giustificazione per l'autodistruzione, il ricordo fasullo di una giovinezza aurea che forse tale non era, perché già divorava il futuro. C'è davvero tanto anche solo in questi ultimi episodi che parlano delle straordinarie contraddizioni dei sentimenti, del timore di essere felici, della melanconia di chi si percepisce troppo.  E non esiste un'illuminazione da cercare o trovare, perché la ricerca, purché sincera, basta a se stessa. In fondo, trovare la felicità è come superare un confine: non lo si può vedere, non lo si può percepire, semplicemente continui a camminare e, senza rendertene conto, capisci che qualcosa è cambiato.

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