BoJack Horseman (quinta stagione): la recensione
La quinta stagione di BoJack Horseman è disponibile su Netflix
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Dopo molto tempo, BoJack ha ottenuto una certa stabilità professionale. È impegnato sul set di una nuova serie tv poliziesca, intitolata Philbert, di cui è protagonista. Non è il migliore degli show possibili, ma è un buon prodotto. Soprattutto, si tratta di un'occasione per imporre legittimamente il proprio ruolo di attore – non più ex star – per se stesso, per le persone che lo circondano, per Hollyhock. Il personaggio della sorella di BoJack apparirà poco nella stagione, ma ogni sua incursione nella storia ci ricorda quanto importante sia per ridefinire il protagonista, la sua attitudine all'autodistruzione, la necessità di intraprendere un percorso di miglioramento.
Il tema della stagione è la ricerca di una nuova identità. Ognuno dei personaggi passa attraverso un momento di forte riconsiderazione di sé, un costante rimuginare sulla propria vita. Ed è forte la sensazione di prigionia che questi personaggi comunicano, nei loro tentativi sbandati e grossolani di acquisire uno status diverso da quello che il passato, la famiglia, la società, la cultura dominante hanno loro imposto. BoJack inevitabilmente è il portavoce di queste considerazioni, e la serie lo chiarisce fin dalla prima battuta. La casa di Philbert ricostruita sul set è identica alla casa di BoJack. Ne condivide ambienti, arredi, panorama, e potenzialmente molto di più.
BoJack è un archetipo, ma è anche un personaggio reale (non conta nulla che sia un cavallo animato) che ha motivi suoi che lo definiscono. E, se esiste un "viale del tramonto" da percorrere, non sarà solo lui a doverlo fare, proprio perché BoJack Horseman non è solo fotografia critica di un certo settore professionale. Qui si parla davvero di tutto. Lo vedremo nell'episodio The Dog Days are Over, in cui Diane cerca di riconciliarsi con le proprie radici vietnamite, o in The Amelia Earhart Story, in cui scopriamo il passato di Princess Carolyn. Genitori opprimenti, stereotipi radicati, modelli culturali: "nessuno guarisce dalla propria infanzia". No, si tratta solo di indossare maschere che diventano sempre più comode, fino a diventare indistinguibili dalla pelle, cercando al tempo stesso scuse per i propri fallimenti.
C'è uno splendido confronto nel quale questa intuizione viene fuori. Per l'ennesima volta, BoJack chiede a Diane di confermargli che lui non è una cattiva persona. La risposta: "There's no such thing as a bad guys or good guys. We are just... guys". Quello che si vuole dire qui è che il pregiudizio di una cattiveria innata, o di un'indole autodistruttiva, rischia di vanificare qualsiasi tentativo di miglioramento. Ognuno di noi può essere migliore, può essere qualcos'altro, può cercare di sentirsi meno solo, ma coltivare il senso di colpa e mortificarsi giorno per giorno non migliorerà la situazione.
Difficile dire se i protagonisti di BoJack Horseman abbiano imparato la lezione (probabilmente no), ma siamo e continueremo ad essere con loro, per assistere ai loro tentativi. C'è troppa umanità in questi personaggi. E c'è la capacità di rielaborare queste considerazioni in modo sempre fresco e creativo. Come in Free Churro, episodio manifesto della stagione, forse della serie. Un monologo che tocca il tema della morte con sensibilità e pragmatismo straziante, riducendo tutto alle sue componenti più basilari e banali, proprio per questo straordinarie. L'assurda ricerca del male e della sofferenza, nella convinzione che potranno distruggerti, ma almeno non potranno deluderti. Fino ad una chiusura che definire geniale è dire poco.