BoJack Horseman (quinta stagione): la recensione

La quinta stagione di BoJack Horseman è disponibile su Netflix

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Spoiler Alert
Somiglia ad un concept album questa quinta stagione di BoJack Horseman. Ne ha il grande equilibrio interno, le esplosioni fulminanti ricondotte ad un tema univoco, la progressione inesorabile in una conclusione che fonde le singole voci dei protagonisti in un coro comune. E, infine, un risultato finale che, come da cinque anni a questa parte, è sempre superiore alla somma delle sue singole parti. La formula episodica, che BoJack Horseman abbraccia traendone il meglio, si sposa allora con l'idea di una "solitudine a più voci", amara, sperimentale, diversificata. Ma sempre umanissima. Sarà una sorpresa per pochi a questo punto, ma la serie animata di Netflix rimane uno dei prodotti migliori del momento.

Dopo molto tempo, BoJack ha ottenuto una certa stabilità professionale. È impegnato sul set di una nuova serie tv poliziesca, intitolata Philbert, di cui è protagonista. Non è il migliore degli show possibili, ma è un buon prodotto. Soprattutto, si tratta di un'occasione per imporre legittimamente il proprio ruolo di attore – non più ex star – per se stesso, per le persone che lo circondano, per Hollyhock. Il personaggio della sorella di BoJack apparirà poco nella stagione, ma ogni sua incursione nella storia ci ricorda quanto importante sia per ridefinire il protagonista, la sua attitudine all'autodistruzione, la necessità di intraprendere un percorso di miglioramento.

Ritroviamo anche gli altri personaggi. Mr. Peanutbutter e Diane hanno divorziato, e ognuno di essi cerca di ridefinire la propria sfera personale alla luce dell'accaduto. Princess Carolyn, nonostante la sua recente rottura, cerca di diventare madre provando ad adottare un bambino. Todd Chavez vive una delle sue stralunate avventure professionali, e lo fa con la più improbabile delle compagnie. Il deserto d'asfalto di "Hollywoo" li circonda. Plasma il contesto con una miriade di dettagli appaganti e divertenti, ridefinisce continuamente caratteri che sembrano esistere solo in funzione della grande e sgangherata macchina professionale che è lo show business. La stagione, lo diciamo subito, è molto divertente.

Il tema della stagione è la ricerca di una nuova identità. Ognuno dei personaggi passa attraverso un momento di forte riconsiderazione di sé, un costante rimuginare sulla propria vita. Ed è forte la sensazione di prigionia che questi personaggi comunicano, nei loro tentativi sbandati e grossolani di acquisire uno status diverso da quello che il passato, la famiglia, la società, la cultura dominante hanno loro imposto. BoJack inevitabilmente è il portavoce di queste considerazioni, e la serie lo chiarisce fin dalla prima battuta. La casa di Philbert ricostruita sul set è identica alla casa di BoJack. Ne condivide ambienti, arredi, panorama, e potenzialmente molto di più.

Nasce come una battuta, ma la scrittura ribalta le maschere dell'assurdo mutandole in tragedia. Nell'episodio più creativo della stagione, The Showstopper, i ruoli si mischiano, le illusioni si confondono, l'attore scivola nel ruolo, mentre il fittizio trabocca nella vita reale, fino ad una violenta conclusione. C'è indubbiamente qualcosa di Mulholland Dr. (siamo sempre a Hollywood) nella commistione indecifrabile tra il vero e il falso, che poi nasconde problematiche esistenziali, ma in una serie come BoJack tutto assume sempre una portata più grande, più generale. Se esiste al momento un erede nella tradizione del grande romanzo americano in televisione, è proprio a questa serie che dobbiamo guardare.

BoJack è un archetipo, ma è anche un personaggio reale (non conta nulla che sia un cavallo animato) che ha motivi suoi che lo definiscono. E, se esiste un "viale del tramonto" da percorrere, non sarà solo lui a doverlo fare, proprio perché BoJack Horseman non è solo fotografia critica di un certo settore professionale. Qui si parla davvero di tutto. Lo vedremo nell'episodio The Dog Days are Over, in cui Diane cerca di riconciliarsi con le proprie radici vietnamite, o in The Amelia Earhart Story, in cui scopriamo il passato di Princess Carolyn. Genitori opprimenti, stereotipi radicati, modelli culturali: "nessuno guarisce dalla propria infanzia". No, si tratta solo di indossare maschere che diventano sempre più comode, fino a diventare indistinguibili dalla pelle, cercando al tempo stesso scuse per i propri fallimenti.

C'è uno splendido confronto nel quale questa intuizione viene fuori. Per l'ennesima volta, BoJack chiede a Diane di confermargli che lui non è una cattiva persona. La risposta: "There's no such thing as a bad guys or good guys. We are just... guys". Quello che si vuole dire qui è che il pregiudizio di una cattiveria innata, o di un'indole autodistruttiva, rischia di vanificare qualsiasi tentativo di miglioramento. Ognuno di noi può essere migliore, può essere qualcos'altro, può cercare di sentirsi meno solo, ma coltivare il senso di colpa e mortificarsi giorno per giorno non migliorerà la situazione.

Difficile dire se i protagonisti di BoJack Horseman abbiano imparato la lezione (probabilmente no), ma siamo e continueremo ad essere con loro, per assistere ai loro tentativi. C'è troppa umanità in questi personaggi. E c'è la capacità di rielaborare queste considerazioni in modo sempre fresco e creativo. Come in Free Churro, episodio manifesto della stagione, forse della serie. Un monologo che tocca il tema della morte con sensibilità e pragmatismo straziante, riducendo tutto alle sue componenti più basilari e banali, proprio per questo straordinarie. L'assurda ricerca del male e della sofferenza, nella convinzione che potranno distruggerti, ma almeno non potranno deluderti. Fino ad una chiusura che definire geniale è dire poco.

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