BoJack Horseman (quarta stagione): la recensione
Struggente e potentissima, la quarta stagione di BoJack Horseman conferma la serie animata di Netflix come uno dei migliori show in onda
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BoJack Horseman è solo l'ultima incarnazione dell'uomo disintegrato del Novecento, ormai del Duemila. Sembra eccessiva come definizione, considerato che non stiamo nemmeno parlando di un uomo, e che la serie animata omonima si svolge in un mondo popolato da animali antropomorfi. Eppure a questa lettura esistenzialista, che ha dei precedenti di immenso valore in tv come I Soprano e Mad Men, si appoggia da sempre lo show di Netflix, tornato per la quarta stagione sulla piattaforma. Una conferma da un punto di vista tematico quindi, ma anche qualitativo, con un nuovo blocco di dodici episodi che esalta caratteri e potenzialità dello show, elevandone, se possibile, ancor di più il livello. BoJack Horseman è senza dubbio una delle migliori serie televisive in onda al momento.
Ad un certo punto della stagione un personaggio affermerà di voler scrivere il nuovo grande romanzo americano: animato da tematiche più che valide, non avrà tuttavia dei caratteri da far sviluppare. Il grande segreto di BoJack Horseman invece è quella di sviluppare più discorsi narrativi personali facendone comunque lo specchio per temi più grandi. Si tratta di sottotesti che emergono quasi sempre per suggestione o rivelazione, improvvisi come un ricordo dimenticato, veicolati da personaggi che sono vivi e con i quali l'empatia è fortissima. Ecco quindi che la ricostruzione delle vicende della famiglia di BoJack, che ha un inizio ideale in The Old Sugarman Place per poi culminare in Time's Arrow, lascia intravedere spiragli di un mondo più vasto, di un malessere più diffuso.
Una drammatica epopea familiare che, se non ha la maestosa potenza narrativa di Il Gigante di George Stevens, quantomeno ne evoca sfumature e tematiche. Corre un senso di colpa tra una generazione e l'altra, una catena di risentimenti, un odio rovesciato da una generazione nei confronti della successiva. Dalla East alla West Coast, le frontiere non sono più quelle delle praterie aperte, dove i cavalli corrono liberi, ma quelle della mente, condizionate da pregiudizi sessisti, dall'identificazione della felicità con l'adesione ad un certo status sociale e culturale. Proprietari nell'anteguerra, pubblicitari negli anni '60, icone dello star system nel Duemila: nulla cambia, l'american way of life detta le linee guida per la felicità, la ricetta che chiunque è condizionato a seguire.
A quel punto gli inside-joke, i mille giochi di parole, i riferimenti arguti all'attualità e l'intelligente satira sociale, appaiono come l'esito naturale e nemmeno più così sorprendente. Perfino gli episodi tematici, come Hooray! Todd Episode! o Ruthie, e le sperimentazioni narrative – altra ottima serie che ha saputo far ciò su Netflix è Master of None – sono l'ossatura di una serie che vola talmente alto nella sua scrittura da rendere normale tutto ciò che è eccezionale. Se qualcosa stona, sono i lunghissimi intermezzi puramente comici, come la storyline dei clown dentisti. Per il resto, la serie trova sempre il modo di sviare le aspettative e imboccare altre strade, senza dover cercare il consenso dello spettatore facendolo sentire intelligente.
Dall'universale al particolare, BoJack è un personaggio che ha ormai assunto grande consapevolezza di sé e della propria tendenza autodistruttrice. La morte di Sarah Lynn e la terra bruciata fatta intorno a conoscenti e amici ha avuto strascichi pesanti, che lo portano a diffidare del proprio rapporto con Holly. Ma questa è la zavorra emotiva che qualunque personaggio porta con sé: il terrore di essere letteralmente smascherati, denudati di fronte ai propri sentimenti in un mondo in cui il primo comandamento è la finzione.
Questa insicurezza profonda, che poggia su un sistema di valori evidentemente sbagliato, ha delle conseguenze nella caratterizzazione di Carolyn, personaggio che affronta un grave problema personale con uno stoicismo a cui non crediamo mai del tutto; di Diane e Mr. Peanutbutter, che si amano, ma che per stare insieme devono mantenere tra di loro un muro di vetro di parole che se crollasse rischierebbe di rendere tutto troppo reale; perfino di Todd, per certi versi. E senza dubbio corre come una maledizione nell'intera famiglia di BoJack, tra parole non dette, promesse infrante, quel senso di rabbia e risentimento che, per qualche motivo, trova sfogo sulle persone più care. Terribile a dirsi, da un lato l'incofessabile desiderio che un figlio non raggiunga mai quella felicità che il genitore non ha avuto, e dall'altro il senso di colpa di un figlio che sentirà di non meritare quella gioia di vivere mai provata dai propri genitori.
Rompere questa catena di odio e mortificazione sembra impossibile. BoJack Horseman rimane portavoce di un nichilismo che non ha nulla da invidiare al “cinismo cosmico” di Rick e Morty, tanto per restare nell'animazione di qualità. Per tutta la serie, e il titolo di un episodio ce lo ricorda, ci viene ricordato che il tempo è una freccia, che il passato genera a valanga le proprie conseguenze, e non c'è nulla che possa deviarne la rotta. Forse. Time's Arrow conferma la tradizionale bomba emotiva dell'undicesimo episodio, concedendoci (con grande naturalezza nel racconto, come se il twist fosse l'ultimo dei pensieri) una rivelazione che sposta il discorso su binari diversi.
Forse aprendo uno spiraglio al perdono, forse aprendo una porta alla redenzione.