Boiling Point, la recensione

In un vortice di parole e gesti Boiling Point riesce a raccontare il mondo della cucina nei suoi aspetti più duri, concentrandosi sull’idea che tanto è alto il compromesso tanto è violenta la caduta.

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La recensione di Boiling Point, al cinema dal 10 novembre

Quando hai 99 vorresti 100. Sei praticamente impeccabile, ma quel millimetro che ti divide dalla perfezione è molto più abissale di qualsiasi più larga distanza. Perché ci sei quasi, e brucia da morire. Questo discorso vale per il protagonista di Boiling Point, lo chef di alta cucina Andy (uno Stepehen Gram statuario, granitico) ma anche per il film stesso di Philip Barantini: è eccellente, eppure un pizzico di arroganza lo avrebbe reso grandioso

Quello di Barantini è un film low-budget (girato in un’unica location, basato interamente sui dialoghi e le aspettative che crea intorno a questi) ma dalle aspirazioni altissime, realizzato in un unico, incredibile piano sequenza all’interno di un ristorante londinese lungo un servizio caotico del venerdì sera. Siamo dalle parti di Victoria di Sebastian Schipper, ma ridotto all’osso. Il piano sequenza infatti non è qui altrettanto evidente (non ci sono cambi di luogo a renderlo tale) eppure la scelta registica di prendere un unico, lungo, respiro dà il senso all’intero film. E così Boiling Point spinge con cattiveria l’acceleratore della narrazione per arrivare a quel senso di urgenza e di “realtà dai minuti contati” che solo un piano sequenza così immersivo poteva catturare.

Sulla perfezione registica di Boiling Point non ci sono dubbi. Dal momento infatti in cui Andy è al telefono fuori dal locale e varca la soglia del ristorante, ogni singola cosa che accade a lui o ai suoi collaboratori non è che un indizio che Barantini ricerca con insistenza per crearci sempre più aspettative, ansie, dubbi su cosa stia davvero succedendo o - soprattutto - su cosa diavolo sta per succedere. Perché sentiamo sulla pelle che qualcosa di grosso deve succedere. La cosa stupefacente è però che questa sensazione si avverte fortissima nonostante “il visivo” appaia invece come perfettamente naturale, scorrevole. Normale. Non è allora l’occhio di Barantini a spingerci con insistenza da qualche parte, perché questo si limita a seguire i personaggi come fosse la loro ombra. È la scrittura a creare questo disagio.

Proprio la scrittura di Boiling Point è allora quel dettaglio millimetrico che divide il film dalla grandezza: costruita per continue semine narrative, questa pone infatti lo spettatore nella posizione di avere aspettative su ognuno dei personaggi, possibilmente alla pari nella posizione di poter fare qualcosa di avventato/rischioso/strano che rovini un servizio già pieno di ostacoli. Tra l’ex chef mentore di Andy che viene a trovarlo con una critica, una proposta di matrimonio al tavolo 13, un gruppo di influencer che vogliono un fuori menù, dei ricchi maleducati e insieme a loro tutti i lavoratori del ristorante, ogni singolo personaggio ha un qualcosa che può essere un’arma a doppio taglio. La perfezione va però a cadere dove risiede l’ovvio, infilando nell’orecchio dello spettatore una certa pista (non diremo quale) che farà andare il film esattamente dove ci si aspetta.

Si tratta di un dettaglio che in un certo senso rovina la sorpresa, ma che tuttavia non va a minare il coinvolgimento e il ritmo ansiogeno del film. In un vortice di parole e piccoli gesti Boiling Point riesce a raccontare il mondo della cucina nei suoi aspetti più duri, cupi, concentrandosi sull’idea che tanto è alto il compromesso (e per Andy capiamo essere alta la fama tanto quanto il suo debito e il suo tracollo personale) tanto è violenta la caduta.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Boiling Point? Scrivetelo nei commenti!

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