Bohemian Rhapsody, la recensione
Bohemian Rhapsody non riesce a raccontare i Queen ma almeno racconta il rapporto con il pubblico
Il problema di questo primo vero grande biopic per il cinema su Freddie Mercury e i Queen è di essere scritto come un comunicato stampa promozionale, infarcito di frasi fatte autoesaltatorie, e apparentemente sceneggiato da qualcuno che non ha mai lavorato ad alti livelli (invece c’è il grandissimo Peter Morgan dietro il soggetto, sebbene la sceneggiatura l’abbia scritta Anthony McCarten, già responsabile di La Teoria Del Tutto).
A salvare questo intreccio problematico di pessima scrittura e cattiva produzione (ma del resto era difficile cavare qualcosa di buono da un film che ha dietro di sé le stesse persone rappresentate) dovrebbero essere gli attori ma anche lì le cose non vanno bene. I membri del gruppo sembrano essere considerati dal film la linea comica, sono macchiette che fanno faccette e hanno appiccicate a sé le etichette del burbero, il gentile e il mansueto, mentre Rami Malek fatica moltissimo con una protesi ingombrante tra mimesi e performance. Né uguale (impossibile) né capace di alludere a Freddie Mercury, la prestazione di Malek non è in grado di elevarsi sopra i difetti del film.
In quei circa 20 minuti di canzoni, ottima recitazione e sforzo di unire un pubblico immenso a chi sta sul palco c’è finalmente l’unione di aneddoti e sensazioni con un fine chiaro. Lo sforzo di Bryan Singer è mostrare cosa accada a un concerto, come possano tantissime persone legarsi ad una performance e (finalmente!) cosa, a parte le canzoni, rendesse leggendario Freddie Mercury. Per fortuna questa è la grande scena che chiude il film, lasciando un ottimo sapore nonostante quello che è venuto prima.