Bohemian Rhapsody, la recensione

Bohemian Rhapsody non riesce a raccontare i Queen ma almeno racconta il rapporto con il pubblico

Critico e giornalista cinematografico


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Quel che Bohemian Rhapsody realmente mostra sono i limiti del fan service, cosa accada a pensare un film per compiacere chi è già fan del suo soggetto. Pieno di ammiccamenti, dettagli e richiami a nozioni o elementi della vita dei personaggi che solo i fan conoscono, il film addirittura fa dire ad un produttore interpretato da Mike Myers che nessuno mai seguirà il tempo di Bohemian Rhapsody con la testa mentre è in macchina, come invece fa lui in una nota scena di Fusi di Testa, il massimo dell'ammiccamento.

Il problema di questo primo vero grande biopic per il cinema su Freddie Mercury e i Queen è di essere scritto come un comunicato stampa promozionale, infarcito di frasi fatte autoesaltatorie, e apparentemente sceneggiato da qualcuno che non ha mai lavorato ad alti livelli (invece c’è il grandissimo Peter Morgan dietro il soggetto, sebbene la sceneggiatura l’abbia scritta Anthony McCarten, già responsabile di La Teoria Del Tutto).

Da subito convenzionale, il film divide rigidamente il racconto in cronaca professionale e cronaca privata. Da una parte gli amori, dall’altra la famiglia e da un’altra ancora la professione, anzi gli aneddoti sulla professione, i momenti importanti al pari di quelli ininfluenti e poi ancora le scene intime a intervalli regolari per fare il punto a parole della situazione sentimentale. Questa rigida separazione dei fatti e delle sensazioni dovrebbe servire per mettere in scena il carattere e la lotta personale di Freddie Mercury. Ma come la maggior parte dei film su musicisti (veri o inventati) la storia alla fine è quella di una persona che scopre se stessa usando la musica come megafono.

A salvare questo intreccio problematico di pessima scrittura e cattiva produzione (ma del resto era difficile cavare qualcosa di buono da un film che ha dietro di sé le stesse persone rappresentate) dovrebbero essere gli attori ma anche lì le cose non vanno bene. I membri del gruppo sembrano essere considerati dal film la linea comica, sono macchiette che fanno faccette e hanno appiccicate a sé le etichette del burbero, il gentile e il mansueto, mentre Rami Malek fatica moltissimo con una protesi ingombrante tra mimesi e performance. Né uguale (impossibile) né capace di alludere a Freddie Mercury, la prestazione di Malek non è in grado di elevarsi sopra i difetti del film.

La storia dei Queen in Bohemian Rhapsody è una cavalcata molto rapida di un gruppo che funziona come una famiglia fino a che una pressione eccessiva sul suo cantante, la droga e la amicizie sbagliate non gli fanno perdere la retta via. Una schematizzazione da cinema degli anni ‘50. A riconciliare tutto ci sarà il finalone al Live Aid. E in effetti quel momento è il migliore del film.
In quei circa 20 minuti di canzoni, ottima recitazione e sforzo di unire un pubblico immenso a chi sta sul palco c’è finalmente l’unione di aneddoti e sensazioni con un fine chiaro. Lo sforzo di Bryan Singer è mostrare cosa accada a un concerto, come possano tantissime persone legarsi ad una performance e (finalmente!) cosa, a parte le canzoni, rendesse leggendario Freddie Mercury. Per fortuna questa è la grande scena che chiude il film, lasciando un ottimo sapore nonostante quello che è venuto prima.

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