Boardwalk Empire (quinta stagione): la recensione

Si chiude la quinta e ultima stagione di Boardwalk Empire: diamo l'addio ad una delle migliori serie degli ultimi anni

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Spoiler Alert
Domenica sera si è concluso un capolavoro. Si è spento quasi in solitudine, senza eccessi né clamore, circondato solo dall'affetto di chi in questi cinque anni ne ha seguito le sorti alterne in attesa del calo del sipario. E nel finale di Boardwalk Empire è facile rintracciare echi del destino di Nucky Thompson, il malinconico uomo del passato che crolla di fronte ad un futuro che non gli appartiene, lungo quel pontile che ne ha sostenuto i passi fin da bambino. L'asprezza del criminale contrasta con gli occhi fragili di Steve Buscemi, che dal 2010 ha riversato corpo e anima in questo personaggio, mentre osserviamo un'epoca che si spegne, trascinando via i sogni di gloria e lasciando solo la polvere da spazzare.

     One generation passeth away, another generation cometh, but the Earth abideth forever

La citazione dell'Ecclesiaste pronunciata da Narcisse è l'epitaffio sulla lapide di un mondo che crolla, travolto da una nuova generazione, non necessariamente migliore o peggiore della precedente, ma diversa. In prospettiva l'ultima stagione della serie prodotta da Martin Scorsese ha raccontato un lungo epilogo, la passerella d'uscita delle figure mitiche dell'epoca del proibizionismo che, disilluse e sconfitte, abbandonano la scena. Rimpianti, dolore, frustrazione e il peso del passato che schiacciano qualunque possibilità di redenzione. Un'ultima parentesi cupa e terribile, che rinuncia alla tentazione di conciliare una giusta chiusura con la ricerca del consenso dello spettatore, e corre implacabile per la sua strada senza guardare in faccia nessuno. Solo una splendida chiusura del cerchio nell'ultima scena, lì a rassicurarci sulla necessità di un salto temporale e a convincerci che ciò che abbiamo visto ha avuto un senso.

Non era difficile immaginare ciò che sarebbe accaduto nel finale di stagione, e non solo per ciò che avevamo visto nelle ultime puntate. Nella scena iniziale di Eldorado, Enoch finalmente si getta nelle acque di Atlantic City che per anni gli abbiamo visto osservare nella opening dello show. Quella distesa d'acqua, limpida e senza bottiglie di alcol, lo accoglie e lo riporta alle sue giornate d'infanzia, da tempo al centro dei suoi pensieri. È il passato che ritorna sotto varie forme, lo stesso che negli episodi precedenti ha raggiunto Nelson Van Alden (Michael Shannon), facendo crollare la sua quasi decennale copertura (in realtà ormai una nuova vita) agli ordini di Al Capone (Stephen Graham). Ma è anche lo stesso che, nelle fattezze di Daughter Maitland (Margot Bingham), ha spinto Chalky White (Michael Kenneth Williams) al sacrificio estremo.

Immaginare un epilogo diverso dalla tragedia per Nucky Thompson è davvero difficile, e infatti la morte arriva, anche se non nel modo che pensiamo. Come nel finale di Carlito's Way, l'espiazione dei peccati richiede il massimo sacrificio, e spesso il carnefice e la colpa avranno l'origine più inaspettata. "The past is the past, nothing can change it", dice Nucky a Gillian (Gretchen Mol), visitandola nella stuttura dove si trova. Chiudere una serie, si sa, è molto più difficile che aprirla, e anche i più grandi hanno vacillato o non hanno soddisfatto del tutto le aspettative. La conclusione di Boardwalk Empire è di un'eleganza magistrale, semplicemente perfetta e inattaccabile. È coerente con se stessa, è sorprendente nel modo in cui ci viene narrata, perfeziona e giustifica, in prospettiva, una stagione non del tutto decifrabile, ed è splendida da vedere.

Tutto trova il suo giusto posto. Questa bolla temporale che ci ha proiettato per otto episodi nel 1931, richiamandosi tramite flashback sempre più insistiti e pressanti agli eventi che hanno scandito la vita del protagonista, infine riavvolge i fili del tempo e ci riporta alla storyline principale delle prime due stagioni, forse le migliori del serial, quelle in cui abbiamo seguito il rapporto paternalistico tra Nucky e Jimmy (Michael Pitt). Lo fa giocando con un montaggio sempre più serrato tra presente e passato, che si alimenta della tensione che riesce a creare mentre ci avvicina alla conclusione inevitabile.

Per anni Boardwalk Empire è stato il prodotto più curato, elegante, "cinematografico" (ma vorrà dire ancora qualcosa questo attributo?) in tv. Un compendio che farà storia su come fondere valori produttivi di altissimo livello, l'ennesimo capitolo del romanzo americano nelle fila della HBO, degno di sedere al fianco di Sopranos – che soprattutto in queste ultime puntate è un riferimento molto presente, non solo per l'attiva e straordinaria partecipazione dello sceneggiatore Terence Winter e del regista Tim Van Patten – ma anche di The Wire. Ricchezza estetica ed eleganza visiva, al servizio di una storia che si inserisce nella visione storica di Scorsese come ennesima parabola di ascesa e caduta di un uomo che voleva "solo" essere grande, e che è destinata a diventare una pietra miliare nel genere gangster. Da oggi la tv è un po' più povera.

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