Blue Eye Samurai (prima stagione), la recensione
La prima stagione di Blue Eye Samurai è un trionfo visivo intriso di una potenza narrativa a un passo dal capolavoro
La recensione della prima stagione di Blue Eye Samurai, nuova serie d’animazione disponibile su Netflix
La mente dietro questo prodigio d’intrattenimento è quella di Michael Green (Logan, American Gods, Blade Runner 2049) e Amber Noizumi; il cast vocale vanta nomi quali Kenneth Branagh (frequente collaboratore di Green), George Takei e Stephanie Hsu, candidata all’Oscar per Everything Everywhere All At Once. È però la miscela di tutti questi elementi, uniti a uno stile visivo che si avvale della regia di Jane Wu e del lavoro d’animazione dello studio francese Blue Spirit, a fare di Blue Eye Samurai la gemma di questo autunno.
Diversa
La storia è presto detta: l'indomita Mizu, figlia di madre giapponese e di un ignoto europeo, viene ostracizzata fin dall'infanzia per i suoi occhi blu, marchio delle sue infami origini. Siamo nel Giappone del XVII secolo, i confini sono chiusi al mondo esterno e a ogni volto che non abbia tratti autoctoni, con l’unica eccezione dei commercianti che agiscono illegalmente. Mizu sa che c'erano solo quattro uomini bianchi in Giappone al momento della sua nascita, e decide di ucciderli tutti per assicurarsi della morte del padre sconosciuto, colpevole di averla resa un “mostro” agli occhi del mondo.
Per agevolare il proprio piano di vendetta e passare inosservata, Mizu nasconde il proprio genere così come i suoi occhi azzurri, vestendo i panni di un silenzioso ronin occhialuto. Grazie a una serie di incontri fortuiti - dalla principessa Akemi al nemico d’infanzia Taigen, passando per il fidato sognatore Ringo - Mizu si avvicina sempre più al primo bersaglio del suo percorso di sangue: l’arrogante mercante (e cospiratore) irlandese Abijah Fowler.
Inarrestabile
Uno dei punti di forza più evidenti di Blue Eye Samurai è la sua gustosa orchestrazione delle scene d’azione. Non risparmiando dettagli di straordinaria ferocia (abbondano mutilazioni e squartamenti), la serie non perde mai colpi in termini di eleganza formale. Seguire Mizu è come osservare una lunga, passionale danza in cui la protagonista si muove con una ferrea determinazione che, talvolta, sfiora la più ottusa caparbietà.
Pura estasi per gli occhi dello spettatore, tanto intensa da far perdonare alla serie alcuni momenti in cui la sospensione dell’incredulità viene messa a dura prova, su tutti quello in cui la nostra eroina sgomina un drappello di guardie senza disporre di alcun’arma. Piccolezze rispetto al tripudio visivo ed emotivo di un’opera che tratteggia con impeccabile finezza i propri personaggi, facendoci innamorare tanto delle loro storie quanto delle prospettive che il finale di stagione apre dinanzi a loro.
Universale
Sempre lontana da soluzioni narrative scontate, Blue Eye Samurai non cade però vittima dell’ossessione per i colpi di scena: ogni svolta - e la stagione ne è ricca - è accuratamente preparata, in modo da sorprendere lo spettatore senza fargli mettere in dubbio la verosimiglianza di quanto sta osservando. Al di là della superficie sontuosa, c’è infatti una verità calda e pulsante nelle vene di questa storia, una verità che sorregge le azioni dei suoi personaggi e non ci fa mai dubitare delle motivazioni che li muovono in una determinata direzione o che, al contrario, li fanno evolvere e allontanare da essa.
È questo il potere delle grandi storie cui la serie Netflix guarda con occhio acuto e sensibilità contemporanea, riuscendo però ad affrancarsi dalla tentazione di anacronismi ammiccanti. Non serve forzare la mano, quando a muovere il pennello dell’artista c’è l’universalità della bellezza. In questo senso, Blue Eye Samurai è un racconto di emarginazione che parla al mondo, trascendendo i limiti dell’epoca storica in cui è ambientato e avvicinandosi, con passo sicuro, all’Olimpo dell’eternità.