Bloodline (terza stagione): la recensione

Tra segreti e sensi di colpa, si chiude su Netflix la saga familiare dei Rayburn: la recensione della terza stagione di Bloodline

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Spoiler Alert
Bloodline non sarebbe dovuto andare oltre la prima stagione. Poco è intervenuto a smentire questa considerazione nella seconda annata, nulla ha ribaltato questo aspetto nel terzo, e conclusivo, atto della saga familiare dei Rayburn. Guardare a posteriori alle tre stagioni della serie Netflix significa osservare una struttura narrativa particolare e zoppicante, in cui ogni blocco di episodi ha finito per diventare il lungo epilogo dei precedenti. Così come la seconda stagione poggiava sulle rivelazioni arrivate ben oltre lo scadere del tempo regolamentare nel season finale della prima, così questa stanca decina di episodi non fa altro che rimuginare sulle stesse variabili e su personaggi che sprofondano sempre più.

We’re not bad people, but we did a bad thing

Questa frase, praticamente la tagline della serie, aveva un senso nella prima stagione. Il ritorno di Danny (rivedremo ancora Ben Mendelsohn), la pecora nera che si era convertita al male perché tutti intorno le ripetevano di non avere altra scelta, aveva grande fascino. Ancora più interessanti le sfumature di una famiglia perfetta che poggiava su un passato pieno di segreti, la natura lussureggiante che copriva e soffocava le erbacce ma finiva per marcire dall'interno. Quindi la forza del nome, il retaggio che – come in una sorta di nobile casata – doveva sopravvivere nonostante tutto. John, Sally, Meg, Kevin ne erano i custodi, e Danny, vittima sacrificale, non poteva che subire questa history of violence. Con la sua morte, tuttavia, i Rayburn realizzavano proprio ciò che cercavano di evitare: erano dannati per sempre.

Alla luce di ciò che abbiamo visto nelle successive due stagioni, questa frase non ha più senso. I Rayburn sono eccome delle persone cattive, viscide, subdole e vigliacche. Seminano cadaveri, inventano versioni per coprirsi a vicenda, nascondono la testa sotto la sabbia e, quando nulla di tutto ciò è possibile, semplicemente fuggono. Da parte dello spettatore non può esserci compassione per tutto questo, benché la scrittura a volte dia l'impressione di cercarla, ma non perché il male non sia degno di essere raccontato. Anzi, se c'è una cosa che la televisione sta facendo negli ultimi anni è proprio raccontare il fascino di personaggi estremi, colpevoli, anche dannati a modo loro.

Ma qui la parola chiave è "fascino". Non c'è nulla di affascinante nei Rayburn. John, Meg e Kevin sono persone diverse tra di loro, ma ciò che li accomuna è la mediocrità. John (Kyle Chandler) è il protagonista della stagione, eppure la nostra visione non coincide mai totalmente con la sua. Il che, considerato che il penultimo episodio racconta una fantasia onirica sul modello di una certa puntata dei Soprano, è dire tanto. Qui si tratta di coprire l'omicidio di Marco, e ancora si ripropongono le solite discussioni: Kevin (Norbert Leo Butz) nel panico, John che si assume la responsabilità, un castello di bugie mentre tutto intorno crolla. Rimane qualche vago senso di colpa, maturato più per esigenze di scrittura che per altro, che dovrebbe portare ad una chiusura, ma nemmeno questa arriva.

Meg, e la sua interprete Linda Cardellini, fugge da tutto questo. Sostenere il silenzio di Meg di fronte all'accaduto sarebbe stato troppo per la scrittura della serie, ma anche estirpare il personaggio e trapiantarlo da un'altra parte non è una soluzione elegante, considerato che a un certo punto sparirà. Kevin è un personaggio indolente e insopportabile, la scrittura lo rende un piatto strumento del caos, una fonte inesauribile di problemi e lamentele.

Peccato anche per Sally, che grazie a Sissy Spacek lo scorso anno era stata protagonista dei momenti migliori, quelli in cui si svelava la fragilità materna del personaggio. Quest'anno la quantità di disgrazie e mortificazioni sarà talmente elevata da generare l'effetto opposto. Il disinteresse con il quale si finisce per accettare qualunque macabro segreto è quasi straniante. Persone che si ripudiano e odiano a vicenda, ma che si meritano l'un l'altro.

Nei primi episodi funziona la parentesi processuale, direttamente collegata al cliffhanger della scorsa stagione. Una volta esaurita questa, la stagione, già non particolarmente agile, si affatica nell'incastrare storyline abbozzate o narrate a mezza voce. Il tutto culmina in un finale che non preclude del tutto a nuovi sviluppi, anche se è noto che la storia terminerà qui.

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