Blood Red Sky: la recensione
Blood Red Sky prende un'ottima premessa e la stira troppo, quasi oltre i limiti della sopportazione; che però, per fortuna, non supera mai
Prendete due battute ragionevolmente famose del cinema di genere dell’ultimo quarto di secolo: Sam Jackson che dice “I’ve had it with these motherfucking snakes on a motherfucking plane” e George Clooney che esclama “Siamo tutti d’accordo nell’affermare che abbiamo a che fare con dei vampiri del cazzo?”. Mettetele insieme, spogliatele di ogni ironia e otterrete Blood Red Sky, un curioso film di vampiri che non fa nulla per nascondere la sua natura fin dall’inizio e che, se solo avesse un po’ di dono della sintesi, potrebbe diventare un piccolo culto.
Il setup sarebbe quello perfetto per un action tiratissimo, claustrofobico e ultraviolento, ma Peter Thorwarth (che oltre a dirigere Blood Red Sky l’ha ancora scritto) ha altre idee: il suo non è solo un film di vampiri ma anche un film su una vampira, sul fatto che non accetta la sua condizione, che è convinta di rappresentare il male, che ha un desiderio di morte che solitamente non ci si aspetta in una persona che morta lo è già, ed è risorta con i superpoteri. L’aspirazione autoriale purtroppo azzoppa un po’ il risultato finale: Thorwarth dedica tantissimo spazio a flashback, spiegoni e momenti di introspezione vampirica – durante i quali, va detto, Peri Baumeister tiene il punto con una classe assoluta, e riesce a risultare credibile anche quando si dispera truccata da Dracula – e rallenta spesso il ritmo per provare a far respirare la storia. Il problema è che la fa respirare fin troppo: il problema non sono i flashback in quanto tali, ma il fatto che potrebbero durare di meno e sarebbero doppiamente efficaci; una cosa è l’atmosfera, un’altra è tenere un’inquadratura troppo a lungo anche quando ha già detto tutto quello che doveva dire.