Blood & Gold, la recensione

Dichiaratamente derivativo, Blood & Gold si propone con un divertissement, ma il piacere del racconto è annacquato da parentesi intimistiche e storiche

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La nostra recensione di Blood & Gold, disponibile dal 26 maggio su Netflix

Che sia un film derivativo, Blood & Goldnon cerca certo di nasconderlo. Raccontando una vicenda ad alto tasso di nazisti, violenza e grottesco, propone fin dalle prime battute alcuni passaggi facilmente riconducibili a Bastardi senza gloria, esempio più noto che si muove su queste coordinate. Poi fa un passo ancora indietro e risale direttamente a Sergio Leone, attraverso un’ atmosfera e motivi western che progressivamente prendono il sopravvento. C’è un bottino nascosto da recuperare, ma soprattutto c’è un elemento estraneo che porta disturbo in una piccola città. Ma essere poco originali, o proporre ibridi già visti, non è un problema. Sulla carta, almeno.

Protagonista di Blood & Gold è un disertore dell’esercito tedesco che, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, scampa alla morte per impiccagione grazie all’intervento di una donna che ce l’ha a morte con i nazisti. Mentre l’uomo non desidera altro che tornare a casa e riabbracciare la figlia, i due si troveranno coinvolti nella caccia a un ingente quantitativo d'oro appartenente a ebrei, nascosto da qualche parte in un villaggio, a cui sono interessati soldati e gente del posto.

A partire da questo semplice canovaccio, Blood & Gold inserisce, silenziosamente ma in maniera sempre più progressivamente, due elementi che lo distaccano dai modelli di partenza. Un ruolo più attivo alle figure femminili, che prendono in mano la situazione e le armi, scoprendosi ben più risolute degli uomini. E una consistente backstory ai personaggi, utile a ricordare gli orrori della guerra e delle persecuzioni degli ebrei. È in particolare questo aspetto a non convincere, togliendo molto del piacere del racconto.

Se le premesse del film sembravano infatti assicurare grandi dosi di divertimento, magari grossolano, ma pur sempre efficace, quello a cui assistiamo non esattamente così. Se all’inizio vengono proposte scene di efferata violenza con un sottofondo musicale pop, contraltare ironico, queste nella seconda parte assumono configurazioni più videoludiche, e a risentirne è l’aspetto pulp, via via addomesticato. Abbandonano gli elementi potenzialmente grotteschi, ma a dominare è poi la serietà dell'orizzonte complessivo. Il regista Peter Thorwarth si rivela più interessato alle parentesi intimistiche e storiche, a dialoghi pieno di pathos che cozzano con la consistenza dell’intreccio e degli interpreti. Questa tendenza non sarà che ribadita nel finale, in cui prima viene mostrato l’arrivo degli Alleati, con toni beffardi, ma poi, con un colpo di coda, si chiude su un quadretto commovente, che annacqua il tutto.

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