Blonde, la recensione
Dolente sinfonia su identità e divismo, Blonde di Andrew Dominik è una visione affascinante e libera sul mito Monroe e sull’individuo Baker
La nostra recensione di Blonde di Andrew Dominik, in concorso alla 79sima edizione del Festival di Venezia
Con la sua non-biografia su Norma Jean Baker alias Marilyn Monroe, il regista australiano fa una scommessa rischiosa e destinata a trovare parecchi detrattori: rappresentare il mito senza la confortante rete della filologia, muovendo i propri passi a partire dall'omonimo romanzo del 1999 di Joyce Carol Oates. Blonde è quindi un salto nel vuoto, una libera visione, un sogno confuso e disorientante sulla mancanza d'amore, sull’identità e sulla mistificazione del divismo.
The blonde side of the moon
La scelta di De Armas come protagonista varrebbe, già di per sé, una riflessione; il parallelismo tra Norma che parla di Cechov e Ana che interpreta il ruolo gigantesco di Monroe è immediato. Entrambe sono alle prese con dei mostri sacri, ed entrambe vogliono dimostrare al mondo (che si tratti del drammaturgo Arthur Miller o del pubblico del Festival di Venezia) di essere molto più di un mero bel faccino.
De Armas esce vittoriosa dall’impresa, regalando una sua versione di Norma/Marilyn tutt’altro che scolastica; eravamo pronti a farci sorprendere e, come Miller di fronte al suo provino, ci emozioniamo per la sua performance di vibrante, sentita intensità. Lontana dalle insidie dell’imitazione a ogni costo, De Armas ci mostra il volto nascosto della luna che fu Marilyn Monroe: appunto, Norma Jean Baker.
Padri e figli
Ponendo come focus del dramma di Norma l’impossibilità di costruire un contesto familiare sereno attorno a sé, Dominik intona una ballata struggente che parla di genitori folli o inesistenti, di figli bramati e impietosamente negati dal fato, dal successo, dalla politica. Norma vorrebbe essere figlia, ma la condizione le è preclusa dalla malattia mentale della madre e dall’abbandono del padre ignoto prima ancora della sua nascita; vorrebbe essere madre, ma una catena di aborti (imposti e non) le vieta anche di realizzare questo sogno.
Così, la donna resta sospesa in un limbo allucinatorio, che trova il suo culmine all’indomani della perdita spontanea del figlio concepito con Miller; il miraggio della serenità svanisce in un battito di ciglia, e l’incubo della solitudine si riaffaccia alla porta. ”Tutti vorrebbero essere al suo posto, miss Monroe”, mormora una sarta impegnata a sistemare le sete che avvolgono il magnifico corpo della sirena hollywoodiana; tutti, tranne Norma stessa, in cerca di un’identità ”altra” rispetto al fallace mito costruitole intorno.
Caleidoscopio
In accordo con l’eterogeneità - in termini sia di carriera che di vissuto - del percorso di Norma, Dominik si concede una libertà artistica assoluta, attraverso una sontuosa grammatica visuale che passa dal bianco e nero al colore mutando continuamente formato. Un poema estetico di sublime eclettismo, che adatta al contenuto la propria forma. In virtù di questa libertà, scivola talvolta nel kitsch di una cgi sgradevole e, per certi versi, ridicola; una scelta che contribuisce (non sappiamo quanto consapevolmente) a evidenziare quanto il sogno familiare di Norma sia fasullo e irreale.
Bambina spaventata fino alla fine dei suoi giorni, la Norma di Dominik si muove in un mondo di maschere distorte; il balsamo di un volto amico è illusione passeggera, come dimostra il rapporto simbiotico con i subdoli figli di Chaplin e Robinson nonché la fiaba intellettuale delle nozze con Miller (un eccezionale Adrien Brody). Vaga così, ubriaca di una celebrità matrigna, ambita preda delle brame sessuali di un popolo (nonché del suo massimo rappresentante, Kennedy); è un vago peregrinare, illuminato dalla fioca luce della speranza di ritrovare l’ignoto padre, fantasma consolatorio di una normalità impossibile.
Daddy issues
Proprio sulla necessità di trovare un padre, Dominik crea il monumento tragico della sua Norma. Legatasi inizialmente a uomini succubi della statura enorme dei propri padri, la protagonista non cerca solo una figura di riferimento per recuperare un’infanzia digiuna d’affetto; cerca, in realtà, una propria identità. Se Marilyn è un personaggio larger than life proprio perché inesistente, l’insicura Norma non è in grado di definire se stessa.
Le sue urla devastanti sul set di A qualcuno piace caldo divengono quindi il canto funebre della sua autoaffermazione; mentre il sogno allucinatorio si fa sempre più confuso, veicolato da psicofarmaci e alcol atti a sopprimere Norma in favore di Marilyn, la donna si arrende alla sordità di un mondo che non è interessato all’individuo, ma solo e unicamente all’icona. Svelato l’ultimo, crudele inganno attorno al padre assente, a Norma non resta che consegnarsi alla storia; un addio all’apice per Monroe, un congedo nel fondo del baratro per Baker. In entrambi i casi, stupendo.