Blair Witch, la recensione

Dopo finto di abbracciare lo stile del film originale Blair Witch si dimostra sequel/remake infedele e nella seconda parte, per fortuna, fa quello che vuole

Critico e giornalista cinematografico


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Sorvoleremo ora sull’opportunità o meno di rifare un film uscito poco meno di 20 anni fa la cui caratteristica principale era l’unica cosa che non si può replicare: l’effetto sorpresa. Molto dell’effetto della fama e del successo di The Blair Witch Project era cioè dovuto alla maniera astuta in cui la promozione si è mossa tra inganno e realismo, simulando di essere un vero video amatoriale ritrovato, così traducendo la paura di finzione in paura vera. Inutile discutere questa decisione perché ormai Blair Witch (senza progetto) è tra noi, remake che in realtà è un sequel e segue l’avventura del fratello della protagonista del primo film, sulle sue orme per ritrovarla 20 anni dopo. Un film uguale nelle premesse e nella struttura ma ambientato dopo.

Il punto di interesse maggiore del film tuttavia è un altro, non tanto quel che si possa ancora fare con il genere horror found footage, ma quello che può fare con una storia simile, una di paura sovrannaturale, Adam Wingard, piccolo maestro del cinema thriller rivelatosi con Pop Skull e You’re Next.

Per tutta la prima parte Wingard getta le basi nella maniera più classica possibile, ricalca l’originale e costringe i suoi personaggi nel bosco, guidati da due guide che paiono agnelli scarificali fin dall’inizio, senza aver alcuna idea specifica di paura. Dopodichè, quando si manifesta la strega del titolo, dimostra di aver scelto tutt’altra strada rispetto all’originale.

Fedele alla sua idea di apparire come un filmato reale The Blair Witch Project non mostrava nulla di nulla (componente fondamentale per caricare l’impatto del suo ultimo fotogramma), teneva la paura di sfondo e la giostrava con elementi di scenografia boscaiola quali gli omini di legno appesi e culminavano nella fenomenale casa diroccata finale. Qui invece Wingard non vede l’ora di mette le mani sul sovrannaturale, fa spostare gli oggetti, fa accadere fenomeni inspiegabili e in un crescendo di ritocchi in cui la componente found footage è sempre meno importante, arriva al suo finale.

Lì, negli ultimi 20 minuti circa, nella terribile peregrinazione dentro la baracca, si gioca il meglio del film. Con buona approssimazione e un po’ di ottimismo si potrebbe anche dire che solo quel finale vale il prezzo del biglietto (e l’attesa). Perché tra espedienti classici (la casa entra in scena sotto la pioggia illuminata dai fulmini), trovate ad alto tasso di ansia (un folle viaggio in un buco nella terra) e inseguimenti gestiti alla perfezione con creature di cui non viene nascosta la forma, Blair Witch ha più di un senso e riesce a creare un ambiente davvero spaventoso in cui le premesse non contano più nulla. L’apparire come un video amatoriale, la ricerca di una sorella smarrita, il bosco come luogo misterioso…

Tutto ciò che dovrebbe far parte del marchio “Blair Witch Project” è accartocciato e messo da parte in una lunga gita nella più terribile delle “case dei fantasmi”, una baracca dentro la quale le leggi della fisica non valgono più, abitata dalla strega e in cui ogni umano è un topo che scappa.

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