Blade Runner 2049, la recensione

Collegato all'originale nella trama, ma libero di essere un film di Villeneuve per tutto il resto, Blade Runner 2049 è bello e imperfetto

Critico e giornalista cinematografico


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Lo diceva Roy Batty con le parole di Rutger Hauer ancora prima del gran monologo finale: “Se solo tu potessi vedere quello che io ho visto con i tuoi occhi...”.

Vedere qualcosa ti cambia e non puoi più essere lo stesso, il principio su cui si basa il cinema.

Lo dice anche Dave Bautista, replicante nascosto che il cacciatore Ryan Gosling scova all’inizio di Blade Runner 2049, che la maniera in cui il protagonista agisce non sarebbe tale “se tu avessi visto un miracolo”. Anche se gli occhi non sono così onnipresenti come nell’originale, a ogni modo quel che vedi ti cambia, mentre quel che ricordi determina ciò che sei. Il nuovo Blade Runner è innestato sui due assi principali su cui era incentrato l’essere umani nel mondo dei replicanti: “Veri ricordi uguale vere reazioni umane”. Anche qui la possibilità di ricordare qualcosa di vero discrimina chi è sintetico da chi non lo è.

Blade Runner 2049 affida a quest’impianto la sua fedeltà ai temi dell’originale ma in realtà va a finire subito altrove, in un territorio che per fortuna è più vicino al cinema di Denis Villeneuve che all’imitazione di quello di Ridley Scott.
Con il suo passo moderato e la pochissima fretta di arrivare al dunque, Blade Runner 2049 fa di tutto per somigliare all’originale, ne incorpora qualche sequenza, un pezzo di audio e ad un certo punto anche di più, eppure non lo fa per ritoccarne la mitologia, come Trainspotting 2, ma per accrescerla, per rendere ancora più importanti gli eventi passati. Quello tra gli accadimenti del 2019 e quelli del 2049 è una parte importante della storia ma è un rapporto che rimane in superficie, buono per le sinossi. La sostanza del film è molto diversa e ciò è il suo vero pregio: essere un film di fantascienza di Denis Villeneuve, magari non perfetto come Arrival, ma bello, serio e autonomo pur nei suoi legami con il precedente.

Se quello del 1982 confondeva lo spettatore attraverso la densità di ogni immagine, lo stordiva e gli levava punti di riferimento riempiendo ogni inquadratura di elementi, questo è un film di vuoti. Se nell'originale ogni ambiente era illuminato in modo che non se ne distinguesse bene la conformazione e comunicasse un’idea claustrofobica anche attraverso le luci sempre mobili provenienti dall’esterno, qui tutto è più chiaro, sgombro, minimalista (anche le luci mobili, che pure ci sono, non creano caos ma anzi ordine), è più il futuro canonico per come lo immaginiamo di solito, messo in immagini da un Dio della fotografia come Roger Deakins (che inizia con il freno a mano tirato ma più avanza il film più si libera dalla museruola).

Nella Los Angeles di quel mondo le cose sono peggiorate tra il 2019 e il 2049, la contaminazione con l’Asia ha lasciato il passo a quella con la Russia e Villeneuve è bravissimo a suggerirla senza spiegarla. Sarebbe bello se fosse riuscito a fare lo stesso con la trama, spiegata troppo spesso tramite monologhi implausibili, pronunciati guardando il vuoto (il più fastidioso dei quali è lasciato a Jared Leto, che parlando con la sua assistente dice per filo e per segno quali sono i suoi obiettivi e quali i problemi che deve superare).

Denso di twist narrativi, ipotesi, possibili spoiler e rivelazioni, Blade Runner 2049 non è una storia piccola e noir di un uomo, qualche replicante e una donna tutti in cerca di vita dentro un mondo in cui è difficile amare e facile morire, è un'affresco imponente che riguarda tutto quel mondo e quel che gli può accadere. È un film moderno perché tutto, anche quel meccanismo dei ricordi innestati nei replicanti già noto dal precedente film, è sviscerato e approfondito nelle sue implicazioni, nelle sue cause e nei suoi effetti. È un film pieno di risposte in cui sembra che il mistero faccia gran fatica a ritagliarsi uno spazio, come è caratteristica del cinema moderno, ansioso di informazioni, dettagli e funzionamenti.

Di tutta questa chiarezza molti registi avrebbero fatto l’uso peggiore, invece Villeneuve con il personaggio di Joi, l’assistente personale del protagonista (un’intelligenza artificiale che lui ha acquistato e che non si capisce mai se sia più o meno avanzata dei replicanti), dimostra non solo di avere delle idee proprie ma anche di saperle spiegare e comunicare con trovate visive originali. Con Joi e tutto quello che accade con lei, attraverso di lei e intorno a lei il film dimostra di essere in grado di creare momenti in cui ciò che accade non si spiega a parole, semplicemente avviene davanti a noi, e la maniera in cui lo vediamo avvenire ha la qualità attraente e respingente delle più grandi distopie, i sogni andati a male in cui percepiamo un po’ di romanticismo ma è così flebile che ci commuove.
Il che basta e avanza a farne un film molto bello.

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