Blackhat, la recensione
Epico e spirituale, Blackhat non muove un passo da Miami Vice e Collateral contaminando la più usuale delle storie con uno spiritualismo laico eccezionale
Il digitale delle riprese (nessuno lo usa come lui, approfittando della scarsa dinamica dei colori, della piattezza delle immagini, non finalizzandolo per apparire distante dalla pellicola e facendosi forza di luci naturali) stavolta si sposa al digitale che sporca una trama più che usuale il tanto che basta a renderla poco diversa dal solito. Un hacker viene scarcerato per aiutare la polizia a risolvere un caso di attacco informatico in cui gli Stati Uniti collaborano con la Cina, ovviamente il suo obiettivo è anche quello di scappare ma eventi nel corso dell'indagine gli daranno motivazioni sufficienti a portarla a termine a tutti i costi.
Come Miami Vice la narrazione è priva di colori drammaturgici sebbene piena di dramma, tutto è asciugatissimo ed epico (la coolness esasperata dei suoi personaggi, con occhiali da sole e abiti firmati portati con trasandata sicurezza) all'insegna del sentimentalismo maschile, quello delle poche parole e molte azioni, in cui ci si parla poco e ci si intende con uno sguardo (già Occhio di falco di L'ultimo dei Mohicani conquistava così la sua amata), senza mai bisogno di spiegare a parole quello che si pensa, anzi le parole di solito sono ingannatorie, dicono A ma il loro tono suggerisce B. Fare invece che dire, per i sentimenti come per tutto quello che importa davvero del film. Infatti alla stessa maniera del film tratto dalla serie televisiva da egli stesso curata, anche Blackhat usa una storia sentimentale tra un americano e una cinese per attrarre i grandi opposti e rendere difficile quello che dovrebbe essere semplice, l'ingiustizia suprema contro la quale è indispensabile battersi futilmente.
L'Asia sembra il posto più giusto per il suo cinema, le metropoli sono più metropoli, i luoghi sono stati meno violentati da altri film e in un certo senso vergini per uno sguardo come il suo, la densità di neon, luci, umanità e l'indifferenza di tutto il contesto alle peripezie alle volte incredibili dei protagonisti è molto più esasperata di quanto non si possa filmare in America. Il grande aggregato di cemento in cui anche se spari ad altezza uomo lo stesso non sei nessuno, dove l'unica speranza è trovare qualcuno come te a cui stringerti, posti nei quali la materia dura degli edifici si scontra con quella molle delle persone, palazzi che incombono, condizionano e sembrano essere l'unico Dio che regola le vite delle persone, l'ecosistema in cui queste vite prosperano.
Blackhat è un thriller quasi spirituale. C'è una precisa vocazione esistenziale nella maniera in cui il suo protagonista affronta il proprio destino, si imbarca in un'impresa disperata e davanti alle scelte più difficili opta per quelle che ne mettono a rischio la vita, con un nichilismo e un cinismo verso se stesso che sarebbero sensati solo se fosse un religioso. Ovviamente non lo è, la chiesa del cinema di Mann è la città, i suoi comandamenti sono l'ingiustizia del destino, i suoi precetti sono la coerenza verso i singoli e non il senso del dovere verso un'istituzione, la sua salvezza è solo un'altra persona.
Gli appassionati di cose di informatica troveranno soddisfazione, forse è il miglior film mai fatto sul cybercrimine ma non aspettatevi aderenza al reale al 100%. In un film in cui ci si spara senza problemi in un centro abitato o in mezzo alla folla non pretendete che anche attraverso il computer non si compiano un po' d'azioni improbabili. È un film, non un documentario.