Blackfish, la recensione
La nostra recensione di Blackfish, documentario incentrato sull'orca del SeaWorld che uccise la sua istruttrice, presentato al Sundance 2013...
Enormi piscine, acqua limpida e orche assassine ammaestrate a salutare e fare linguacce: questo è lo spettacolo che SeaWorld riserva al suo pubblico. Un biglietto per vedere le meraviglie dell’oceano attraverso un vetro. Un macrocosmo in un microspazio.
Ma il caso non è isolato. Con Tilikum hanno trovato la morte la biologa Keltie Byrne e il visitatore Daniel P. Dukes. Con queste premesse, Blackfish ci mostra un quadro completo sullo stato delle orche in cattività: punizioni, torture, privazioni di cibo se non imparano i numeri da circo e violente collisioni con gli altri animali quando la piscina ha già un suo branco.
Il grande contributo di “Black Fish” (e anche la sua parte migliore) è l’indagine sul fattore umano, ovvero la serie di disgrazie che SeaWorld, stampa e organi giudiziari conoscevano ma che sono state modellate, travisate e cambiate per non far crollare l’impero milionario dei parchi acquatici.
Per chi non è nuovo al mondo dei documentari, in particolare quelli che hanno già visto “The Cove” o magari fanno zapping su Discovery Channel, “Black Fish” rischia di apparire come una buona opera che durante la formulazione di un giudizio complessivo viene però affossata dalle lacune scientifiche che il trattamento stesso sfoggia con nonchalance.
Nello specifico, sono diversi i trainer che ci vengono presentati banalmente come modelli di buoni dipendenti, ovviamente ignari della carriera di sangue di Tilikum ma anche di alcuni concetti basilari di biologia che un istruttore dovrebbe conoscere o che forse dovrebbero insegnargli; tenendo conto che in più di un’occasione l’intervistato che parla delle manovre delle esibizioni è lo stesso che scomoda concetti di genetica o abbozzate teorie comportamentali delle orche, è ovvio che viene a galla la mancanza scientifica poco sopra citata. Il problema di una riflessione simile è che porta a dubitare dell’intero prodotto o comunque cresce la percezione di assistere ad una narrazione impacchettata da un punto di vista troppo esclusivo per meritare le lodi che sta ricevendo.