Black Widow, la recensione

Alla consueta "familia" che sono gli Avengers ora Black Widow ne affianca un'altra, una famiglia vera (più o meno) da reincontrare

Critico e giornalista cinematografico


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Black Widow, la recensione

Anche Vedova Nera ha la sua “familia” cinematografica, cioè la banda eterogenea per provenienza, carattere e caratteristiche che costituisce il nucleo al centro del film. La “familia” cinematografica è un concetto canonizzato anni fa da Fast & Furious e da lì imitato da tutti. È la maniera in cui un franchise continua ad inserire personaggi e accrescere la sua grandezza quantitativamente senza cambiare le dinamiche interne del gruppo (caratterizzato da linee comiche, affetti e soprattutto senso d’appartenenza ad una comunità come dimostrato dall’addio filmico a Paul Walker). Sono una "familia" gli Avengers (e nel film è spiegato a chiare parole) e adesso esploriamo l'altra "familia" di Vedova Nera, che poi è effettivamente la sua famiglia, o almeno quella che le hanno detto essere la sua famiglia per anni. Come fossero Gli Incredibili, tutti insieme vivono una grande avventura su una remota base del villain.

Superato l’effetto un po’ straniante del fatto che tutto si svolge prima di Avengers: Infinity War, quindi parliamo di qualche anno fa, questa storia si aggancia per stile e caratteristiche a Captain America: The Winter Soldier. È quella declinazione lì dell’universo Marvel, la sua versione di intrigo spionistico ad altissima tecnologia e ubiquo controllo mentale.
Sorprende come in fondo lanci ben poco della nuova fase e meno come si concentri sulla creazione del personaggio di Florence Pugh, sorella popolana che fa continuamente una colpa alla più nota Vedova Nera di farsela con gli Avengers, di stare in tv, di avere amici importanti e spararsi le pose quando è in azione. È popolo vs élite. Se Vedova Nera è parte dei migliori nel senso riconosciuto del termine, sua sorella è una che ha lavorato nell’ombra per anni, macinando attraverso gli stessi rischi senza quel riconoscimento mediatico. Per la prima volta gli Avengers sono identificati come i VIP del mondo Marvel in una maniera non necessariamente positiva.

Anche dal punto di vista delle sequenzone d’azione Black Widow consegna quel che ci si aspetta da questo sottoinsieme dei film Marvel (inseguimento urbano con moto + evasione da carcere con botti e valanga + distruzione di un’imponente costruzione tecnologicamente avanzatissima + combattimenti sofisticati in casa e nelle sedi più istituzionali) ma non hanno mai la rispettabile chiarezza dell’azione Marvel. Unica eccezione la bella fuga iniziale con decollo. Non è infatti cosa da Marvel Studios il combattimento tecnico (unica eccezione: la serie Daredevil, comunque di Marvel Television e non Studios), da sempre scelgono una chiarezza in computer grafica che nei casi migliori è apprezzabile e magniloquente ma qui invece è confusa, ipermontata senza troppo criterio e soprattutto non è mai valorizzata. Ad esempio un personaggio che lotta rubando lo stile a tutti i singoli Avengers non è mai davvero caratterizzato da questa sua particolarità.

Alla stessa maniera l’alleggerimento di commedia, fastidiosamente ghettizzato nelle mani di un solo attore (David Harbour, padre machista e retrogrado), stona moltissimo. La Vedova Nera di Scarlett Johansson negli anni è stata costruita come l’opposto dell’alleggerimento comico e il massimo della gravitas, questo film non riesce a ribaltare questa idea e la rende goffa nei suoi ammiccamenti e sorrisi. O almeno non convince come quando invece cavalca (e bene) il suo personaggio: l’abilità, l’inganno, le pose sparate (sì, anche quelle) e la proposta di un’eroina d’azione per la quale l’attrattiva non sia ininfluente ma anzi parte del set di armi e abilità che possiede. È difficile non imputare a Scarlett Johansson, che per peso, esperienza e capacità deve portare il film sulle proprie spalle, di non riuscire ad accoppiare questo ai momenti più sentimentali (lato sul quale Rachel Weisz invece è completamente dedita).

Nel complesso la produzione Marvel garantisce in pieno la correttezza di un film che non stona accanto ai suoi coevi e come sempre per stile, fotografia, ritmo e scrittura è un altro episodio di questa grande serie di film. Uno che si distingue per pochissimi dettagli (come lo score di Lorne Balfe, dotato di più personalità della media) e che si limita ad informare con correttezza senza appassionare.
Infine, per quanto sia difficile provarlo, è bello pensare che la sequenza finale, con delicatezza e senza metterlo troppo in evidenza, citi Point Break, caposaldo impossibile da trascurare del cinema d’azione diretto da donne.

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