Black Phone, la recensione

Con ispirazioni in egual misura dal mondo Blumhouse e dall'universo di Stephen King, Derrickson confeziona un film pieno di inventiva formale

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di Black Phone, in uscita il 24 giugno al cinema

Gli stilemi del mondo Blumhouse ci sono tutti e stavolta sono mescolati con le idee e le suggestioni di Stephen King in un pastone commerciale, come se qualcuno (sappiamo tutti chi: Jason Blum) avesse voluto mettere insieme gli elementi di maggiore successo dell’horror mainstream degli ultimi 10 anni. Un tipo di operazione fallimentare in partenza, perché i film non si realizzano sommando elementi di successo, e che invece dà vita ad un gran film nella mani di Scott Derrickson (e del suo co-sceneggiatore di fiducia C. Robert Cargill, con cui ha adattato la storia breve di Joe Hill). C’è il mondo dei film Blumhouse dalle maschere di La notte del giudizio, alla grana delle immagini in Super 8 come segno del male (qui sono visioni) vista in Sinister, fino gli anni ‘70 come scenario per l’orrore, ma anche un mondo di citazioni e stilemi delle storie di Stephen King (Joe Hill, a dispetto dello pseudonimo è suo figlio) in particolar modo IT.

Quella di Black Phone infatti è la storia del male che compare in una cittadina della provincia americana. Compare nella forma di un furgone nero (ma che idea fenomenale è quel prologo tutto roseo tagliato brutalmente alla comparsa nello sfondo del furgone??) che tuttavia sembra in realtà lo specchio di un altro male, uno che già esiste nelle persone, nei bulli e nella violenza domestica di cui soffrono i due protagonisti, fratello e sorella con caratteri scritti benissimo. Ci saranno poi anche un impermeabile giallo e la solidarietà dei bambini come arma di difesa (e attacco!) a confermare che il modello scelto da Joe Hill è quello paterno.Ma è soprattutto il modo in cui Scott Derrickson infarcisce questo film di dettagli non per forza funzionali alla trama (come nei migliori romanzi) a dargli una personalità contagiosa e unica. Sotto ad una storia di prigionia e superamento delle proprie paure batte il cuore di un coming of age mascherato, dietro il rapitore-killer da battere per evadere c’è in controluce il padre violento a cui reagire (che roba lo sguardo verso di lui nel finale!). Derrickson intende il cinema come un continuo banco di sperimentazione, riesce a farsi strada con personalità quando dirige Doctor Strange e quando invece è alle prese con i progetti Blumhouse (già Sinister ma qui anche di più) lavora in modi poco convenzionali, inventa ritmi diversi dal solito e tutto in un genere, l’horror, che invece sarebbe altamente codificato e nel quale molti si sentono stretti.

In Black Phone si trovano (tra le cose più evidenti) dissolvenze per raccontare una camminata e soluzioni di montaggio che spezzano quello che altrove è un ritmo continuo. Dietro una trama che ci suona familiare si nasconde un film fatto come pochi altri che afferma la potenza di un cinema così originale nella forma da non avere mai bisogno di originalità nell’intreccio per apparire fresco, godibile, nuovo. Semmai gli basta curare le interpretazioni dei bambini e cesellare con una precisione pazzesca il carattere della sorella minore, un personaggio secondario, in pochissime scene puntando su reazioni, sguardi e una tigna fuori dal comune. Sembra quasi Karen Gillan di Oculus da piccola. Altro film Blumhouse, non a caso.

Continua a leggere su BadTaste