Black Phone, la recensione
Con ispirazioni in egual misura dal mondo Blumhouse e dall'universo di Stephen King, Derrickson confeziona un film pieno di inventiva formale
La recensione di Black Phone, in uscita il 24 giugno al cinema
Quella di Black Phone infatti è la storia del male che compare in una cittadina della provincia americana. Compare nella forma di un furgone nero (ma che idea fenomenale è quel prologo tutto roseo tagliato brutalmente alla comparsa nello sfondo del furgone??) che tuttavia sembra in realtà lo specchio di un altro male, uno che già esiste nelle persone, nei bulli e nella violenza domestica di cui soffrono i due protagonisti, fratello e sorella con caratteri scritti benissimo. Ci saranno poi anche un impermeabile giallo e la solidarietà dei bambini come arma di difesa (e attacco!) a confermare che il modello scelto da Joe Hill è quello paterno.Ma è soprattutto il modo in cui Scott Derrickson infarcisce questo film di dettagli non per forza funzionali alla trama (come nei migliori romanzi) a dargli una personalità contagiosa e unica. Sotto ad una storia di prigionia e superamento delle proprie paure batte il cuore di un coming of age mascherato, dietro il rapitore-killer da battere per evadere c’è in controluce il padre violento a cui reagire (che roba lo sguardo verso di lui nel finale!). Derrickson intende il cinema come un continuo banco di sperimentazione, riesce a farsi strada con personalità quando dirige Doctor Strange e quando invece è alle prese con i progetti Blumhouse (già Sinister ma qui anche di più) lavora in modi poco convenzionali, inventa ritmi diversi dal solito e tutto in un genere, l’horror, che invece sarebbe altamente codificato e nel quale molti si sentono stretti.