Black Panther: Wakanda Forever, la recensione

In linea con il tono di Black Panther anche Wakanda Forever è un film schiacciato dalla sua missione politica e diretto senza personalità

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Black Panther: Wakanda Forever, nelle sale dal 9 novembre

Nel variegato mondo dei film Marvel Black Panther: Wakanda Forever conquista lo scettro cui sembrava anelare già dal precedente film, quello di film più serioso, meno divertito, più politico e soprattutto più militante.

Se nel 2018 il primo aveva fatto segnare un momento di grande riscatto per la cultura afroamericana, questo secondo non solo rilancia sul fronte della diversità ma anche su quello del femminismo (lato sul quale nel 2018 la Marvel era ancora abbastanza indietro). L’occasione la dà la morte di Chadwick Boseman che non può che tradursi nella morte del suo personaggio. Gli studios infatti possiedono le immagini dei personaggi, cioè la rappresentazione delle vere persone, e possono quindi celebrare un funerale di finzione per assorbire i mutamenti della vita reale nel mondo di fantasia e continuare il proprio percorso. È un modo di rispettare la scomparsa ma lasciare che lo show continui, come fossero una soap opera (lo abbiamo visto accadere già in Fast & Furious). Al tempo stesso viene confermato sia che il business è sempre più importante della vita reale, sia che nulla se non il business stesso può fermare la macchina del cinema americano.

Prima ancora del logo Marvel (stavolta senza musica o suoni, come fosse un minuto di silenzio da osservare) siamo introdotti alla morte di T’Challa e al suo funerale in maniere narrativamente piuttosto goffe. Il resto del film avrà a che fare molto blandamente con la sua scomparsa salvo ricordarsene nel finale per un ultimo omaggio prima di voltare definitivamente pagina. Stavolta infatti il punto non è tanto la successione (che come noto, inevitabilmente avverrà) ma lo scontro con un’altra civiltà simile ai wakandiani, una tribale e autoritaria (ma con amore eh!) ovviamente più avanzata delle nostre. È il popolo subacqueo comandato da Namor, tradotto per il cinema in aztechi migrati sott’acqua per fuggire dai conquistadores. Ancora una volta quindi vediamo una nazione supereroe non democratica raccontata come molto più potente di quelle democratiche.

Quella di Black Panther: Wakanda Forever è una storia di risorse naturali che tutti vogliono ma solo questi popoli indigeni possiedono, cioè il vibranio, materiale di finzione dalle incredibili proprietà che è alla base della loro forza tecnologica. Come sempre nel mondo Marvel gli oggetti, i materiali e gli attrezzi sono i veri motori delle trame, il loro passaggio racconta i rapporti e il loro possesso cambia le sorti di ogni conflitto. In armonia con questo, come spesso vediamo accadere nei film più femminili hollywoodiani, anche gli abiti (estensione degli artefatti) diventano strumenti di comunicazione. Qui le protagoniste sono solo donne e quindi ci sono abiti progettati per combattere, abiti da lutto che vanno bruciati, abiti per stare sott’acqua e trattare con Namor, abiti del regno di Killmonger e abiti per mescolarsi agli americani. Mostrarsi in un certo modo è una maniera di dire quel che non può essere detto a parole.

Nel complesso però Black Panther: Wakanda Forever è un filmone molto lungo e denso, pieno di diverse location e di una storia grande e piena di capovolgimenti che non ha mai il passo appassionante dei migliori film Marvel e somiglia più a una miniserie in 3 puntate. Più corretto del primo (che aveva momenti di scarsa qualità produttiva) ma ancora meno appassionante. Ryan Coogler conferma la sua fatica con le colluttazioni e le scene d'azione più complesse (che si capiscono ben poco e quando si capiscono non hanno nessuna personalità, sono la classica espressione generica del buon lavoro degli studios a cui nessuno ha infuso un po’ di inventiva) e soprattutto è sempre più marginale il lavoro sui conflitti e sui personaggi, sempre più elementari e basilari senza nemmeno la grazia di essere esplorati a dovere ma solo appesi perché tutti li vedano e ne riconoscano i soliti tratti. Non è il lavoro assurdo di James Wan su Aquaman, ma più una versione annacquata di un film più compresso. Questo è forse il primo film Marvel che sembra dare ragione a Martin Scorsese quando porta le sue critiche.

Il vero interesse, la vera forza e il vero sforzo sembra semmai essere andato (di nuovo) nella direzione dell’attivismo. I nemici sono gli americani, dichiaratamente, Black Panther: Wakanda Forever ce l’ha proprio con loro e con la CIA (che ad Hollywood è il “personaggio” storicamente deputato a raccontare i mali del paese), fa in modo che tutti i popoli indigeni abbiano ragioni per avercela con i bianchi che li hanno maltrattati, anche se poi gli americani nello specifico sono il punto di riferimento verso il basso di un film che è concentrato sul rappresentare le minoranze: le donne (che minoranza lo sono solo sullo schermo) come gli afroamericani o i centroamericani. Tuttavia lo fa come sempre per stereotipi hollywoodiani (incredibile come la rappresentazione del mondo africano sia la stessa di Il re leone, con gli stessi paesaggi e i morti nel cielo che parlano ai vivi!). Solo una colonna sonora davvero eccezionale di Ludwig Göransson (lo stesso di The Mandalorian), specie per quanto male ci avesse abituato la Marvel, sembra tenere conto di sonorità, tradizioni e specifici etnici diversi rielaborandoli in chiavi originali e interessanti, capace di fare qualcosa con la tradizione e non solo di appenderla.

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