Nel cuore dell’Africa c’è un popolo che vive segretamente e pratica arti marziali come nei film hollywoodiani si immagina facciano gli asiatici. Questo luogo si chiama Wakanda e protegge un livello culturale, economico e soprattutto tecnologico molto più avanzato del resto della Terra, di fatto è come stare su un altro pianeta. La Marvel del post
Guardiani della Galassia continua a cercare di stare il meno possibile sulla Terra e spostarsi quando può in luoghi remoti o fantastici (Asgard, Wakanda, le dimensioni del Dr. Strange, lo Spazio ecc. ecc.) e anche l’esordio di Pantera Nera, da noi americanizzato in
Black Panther al pari di
Spider-man, non fa eccezione.
La Marvel spesso ha dato il suo meglio con i personaggi di seconda fascia, quelli meno famosi e più di nicchia, sperimentando un po’ di più e con meno lacci, come visto in Doctor Strange, ma questo non è il caso. Black Panther è pensato come un atto di militanza afroamericana, al pari del fumetto originale (che però nasce negli anni ‘60), animato da una spinta politica così potente da pregiudicarne alla lunga il godimento. Ryan Coogler fa del film una grande parabola fantastica sul popolo africano in cui bilancia il superomismo individuale dell’eroe con quello della sua gente. Ad essere materializzata è infatti la fantasia africana più sfrenata: che esista uno stato segreto nel cuore del continente, pienamente in linea con le sue tradizioni, molto potente, non più arretrato ma tecnologicamente più avanzato di tutto il mondo e in grado per questo di aiutare gli altri continenti invece che essere aiutato da loro. Un intero stato (e per estensione un continente) supereroe, le cui peripezie dinastiche e governative sono il cuore della trama (per non dire il suo senso del dovere e di "grandi responsabilità" nei confronti degli altri stati).
Questo però sembra aver svilito il protagonista. Come notato i cinecomic raccontano sempre meno le origini dei loro protagonisti o quantomeno cercano di farlo in grande fretta, e così anche il primo film dedicato ad uno di loro (o il primo di un reboot, com’è capitato all’ultimo
Spider-Man) somiglia a quelli che prima erano i secondi film, per come scavalla la questione “origini”. Se quindi prima i supereroi ci venivano raccontati come persone normali a cui accade qualcosa (spesso imprevisto) che li fa passare a uno statuto eccezionale, grazie a superpoteri o protesi, ora li troviamo già diversi dagli altri, a loro agio con il proprio status. Viene saltata tutta la parte di grande eccitazione per la novità e le potenzialità acquisite che prima era fondamentale. Ora dunque non ci somigliano più, ma fin dall’inizio ci sono distanti.
Se per Spider-Man: Homecoming questo cambiamento non ha inficiato il godimento del film, diverso è il discorso per Black Panther. Non è qui presente la gioia di raccontare una storia di eroi della Marvel, il tono leggero, l’azione divertente e la grande autoironia. C’è invece una gravitas data dal tema, dalla missione, dal riscatto africano e da tutto quello che si intuisce essere stato di primaria importanza nella produzione ma che non si è poi tradotto anche in un commerciale travolgente. Senza nemmeno le idee teoriche e visive con le quali la DC, a fatica e riuscendoci magnificamente solo a tratti, tenta di sorreggere il proprio universo cinematografico.
Si aggiunga la goffagine di
Ryan Coogler nel dirigere le fondamentali scene d’azione e combattimento (già notata in
Creed), l’eccesso di fiducia in una CG che non può compiere miracoli a ogni minuto (un confronto finale che coinvolge un treno vede due personaggi visibilmente sostituiti da controfigure digitali che non si muovono in maniera realistica) e una carrellata di personaggi accessori per nulla capaci di portare un po’ di divertimento, di intrattenimento o anche solo interesse e la durata di due ore e un quarto si fa un po’ eccessiva. Paradossalmente in questo trionfo di
black power alla fine gli unici due personaggi che danno l’idea di essere davvero a proprio agio e in linea con il resto dei film Marvel sono gli unici due bianchi (un buono e un cattivo), quelli liberi dal peso del senso del dovere verso la propria missione sociale ed etnica.