Black Mirror (stagione 6), la recensione
Schiava ormai di un successo collaudato, Black Mirror perde la bussola e risulta incapace di mantenere un'identità tematica chiara
La nostra recensione della sesta stagione di Black Mirror, disponibile su Netflix
Fino a ora. Se la terza stagione aveva rappresentato - con l'acquisizione da parte di Netflix - il primo punto di rottura tra la serie e le sue origini, qui il distacco si fa tanto palese da puzzare terribilmente di snaturamento. Si fatica a vedere un filo rosso che colleghi gli episodi, al di là degli innumerevoli ammiccamenti a puntate precedenti. Basta così poco a rendere questa sesta stagione parte integrante di un insieme eterogeneo ma, finora, piuttosto coerente?
Di cosa parliamo quando parliamo di Black Mirror
La risposta è no. Dati alla mano, è praticamente impossibile ricondurre questi episodi all'Albero Madre della serie di Brooker. Al di là della qualità altalenante dei singoli racconti, il discorso più utile che si possa fare su questa stagione riguarda, a questo punto, la trasmutata identità di Black Mirror. Lontana anni luce dallo sguardo acuto e visionario di un tempo, il massimo traguardo che la serie sembra porsi oggigiorno è di assurgere a divertissement di massa.
La fantascienza, presente nelle passate stagioni in quasi tutti gli episodi dello show, viene qui relegata al ruolo di mero contenitore in Joan è terribile e Beyond the sea, senza offrire di per sé spunti accattivanti. Il futuro non apre più ventagli di terrificanti possibilità dinnanzi allo spettatore; la tecnologia è ridotta a mero significante, privata quasi del tutto del suo valore simbolico e del ruolo di minaccia in un domani simile a un incubo.
Pigri tentativi
Certo, le vhs di Loch Henry sono forse un emblema della caducità degli atti registrati in esse, in contrapposizione all'eternità digitale; Mazey Day traccia, in forma larvale, un parallelismo tra lo sciacallaggio della stampa e il destino dei paparazzi protagonisti, secondo una beffarda legge del contrappasso. Nei primi due episodi, peraltro, sembra di vedere Netflix intenta a riflettere su sé stessa, in una sorta di autoanalisi fin troppo compiacente.
In Loch Henry, la decisione di dissotterrare il passato per conquistare il favore di Netflix (qui chiamata Streamberry) porta conseguenze tanto drammatiche da chiedersi se, in fondo, valga davvero la pena cercare la verità a ogni costo. In Beyond the sea, una geniale innovazione tecnologica finisce per portare al disastro i suoi due sperimentatori, gli astronauti Cliff (Aaron Paul) e David (Josh Hartnett), trascinando l'empatia oltre il limiti dell'etica umana. Scintille d'ingegno, germi narrativi che avrebbero meritato d'esser coltivati con maggiore cura di quella riservata loro da una scrittura approssimativa, in linea con la media dei più mediocri prodotti Netflix.
Eccellenze allo sbando
Da un punto di vista strettamente formale, va detto, la stagione brilla come una supernova; i diversi sguardi che si alternano dietro la macchina da presa conferiscono a ogni puntata un appeal visivo innegabile. Stesso dicasi per le ispirate performance di un cast privo di sbavature, dal magistrale triangolo Hartnett-Paul-Mara in Beyond the sea all'esplosivo duetto di Anjana Vasan e Paapa Essiedu in Demone 79, passando per le eccellenti prove di Clara Rugaard, John Hannah, Zazie Beetz, Annie Murphy, Monica Dolan e Samuel Blenkin. Un tripudio attoriale al servizio, ahinoi, di sceneggiature non sempre all'altezza dei propri interpreti.
Si badi: se isolati al di fuori della cornice che ben conosciamo, gli episodi di questa stagione non sono, di per sé, da bocciare in toto. Ciò che ci risulta davvero difficile è leggere le intenzioni di Brooker nel creare questa polifonia di voci dissonanti e confuse, vigliaccamente spaventate dal cinismo e tristemente adagiate su una prevedibilità che, in qualche caso, fa a pugni con la suspence che dovrebbe sorreggerne la narrazione.
Fuori rotta
In diversi episodi (Loch Henry, Mazey Day e Demone 79) l'elemento horror prende il sopravvento su ogni possibile approfondimento. Se c'è una serie sotto la cui ala questi episodi avrebbero potuto forse chiedere asilo, quella è La stanza delle meraviglie. L'unica linea comune, a eccezione forse del primo episodio, sembra essere appunto una certa fascinazione per l'orrore, che finora Black Mirror aveva trattato sempre in funzione di un discorso più ampio sul rapporto tra umano e non-umano.
Riecheggiano, in Joan è terribile, temi già affrontati in passato dalla serie: l'odio come reazione a catena (Odio universale ne aveva dato una visione ben più cupa e ineluttabile) e, soprattutto, la mistificazione attuata da un mezzo di comunicazione inaffidabile (in Caduta libera erano i social, qui è una serie tv). Non è un caso che, nella serie nella serie sulla vita di Joan, la Salma Hayek digitale veda proprio Cate Blanchett nel ruolo di sé stessa. Un'attrice che, recentemente, ha incarnato alla perfezione il ruolo di perseguitata dalla cancel culture nel potentissimo Tár.
Riflessi offuscati
L'episodio però non si accontenta e prende il largo, finendo per essere troppo schiavo della propria narrativa meta. L'insistenza con cui si mette alla berlina la macchina sforna-prodotti Netflix risulta, alla lunga, logorante e priva di un reale mordente in grado di tramutare la farsa in ironia autenticamente dissacrante. Siamo davanti a un cinismo stolido, di facciata, dietro il quale non ravvisiamo il gusto amaro che aveva generato le migliori perle della serie di Brooker.
Ricollegandoci alla carenza di spunti, Joan è terribile sarebbe stato forse l'unico episodio di questa stagione a poter innescare una riflessione sul diritto dell'intelligenza artificiale, anticipando un dibattito che diverrà presto parte del nostro vivere comune. Tuttavia, così come nella maggior parte degli episodi di questa fiacca stagione, tutto s'arresta alla superficie; una superficie dal riflesso opaco, lungi dallo specchio nero che aveva incarnato, in prima battuta, lo spettro di un progresso potenzialmente nemico all'uomo.