Black Flies, la recensione

La recensione di Black Flies, il film con Sean Penn, Michael Pitt e Tye Sheridan e in concorso al Festival di Cannes

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Black Flies, il film con Sean Penn presentato al Festival di Cannes

Forse Shannon Burke nello scrivere il suo romanzo Black Flies (del 2008) ha rovistato nell'appartamento di Paul Schrader, trovando pezzi scartati del copione di Al di là della vita, o forse Ben Marc Brown e Ryan King, che quel romanzo lo hanno trasformato in film, hanno ricalcato la sceneggiatura di quel film di Martin Scorsese cambiando lo stretto indispensabile. Fatto sta che se Al di là della vita fosse la prima stagione di una serie tv, Black Flies potrebbe essere la seconda più deludente, diluita e senza impegno. O forse ancora è Jean-Stephane Sauvaire, che il film l’ha diretto, che aveva in mente questo fin dall’inizio: rifare il film di Scorsese sperando nessuno se ne accorgesse. Chissà cosa ha pensato quando ha scoperto che sarebbe stato a Cannes insieme a lui...

Se nessuna di queste ipotesi fosse vera sarebbe difficile spiegare come sia possibile che qualcuno abbia pensato di scrivere e dirigere un film che prende quasi tutti gli elementi cardinali di Al di là della vita, gli toglie lo spiritualismo (rimangono degli accenni simbolici ma poco) e lo asciuga del rapporto con la metropoli, per farne una parabola di mentore e allievo che celebra i paramedici (esattamente quello che non facevano Scorsese e Schrader). Un ragazzo paramedico vive nottate terribili in un lavoro che è la metafora di un lungo purgatorio: il punto preciso tra la vita e la morte, nel quale si inseriscono dei matti demoniaci. Tutto ripreso come puro caos e tensione. Scorsese lavorava duro di recitazione e immagini per farlo, Sauvaire invece preferisce gestirlo con il sonoro, rubando a Scorsese solo il look fotografico. Il protagonista passerà queste notti con tra compagni diversi di caso in caso, tra matti e barboni, violenti e spacciatori, rischiando tutto e salvando poco, per poi trovare una strana pace di giorno, con il sole, insieme ad una donna, tutta corpo nudo e maternità (!). 

Il materiale di base ovviamente è ottimo ma Black Flies riesce a farne l’uso peggiore. È incoerente, semplicistico e ipocrita. Prima mette Sean Penn nei panni di un cinico uomo duro e impermeabile a tutto per farlo poi diventare violento di fronte a una donna picchiata dal marito. Poi però usa l’unico personaggio femminile del film solo per definire il suo protagonista, non gli dà dignità, non gli dà un arco, non gli dà personalità: è solo una funzione narrativa per l’uomo. Veramente la prospettiva degli uomini di una volta: le donne vanno aiutate e salvate, ma non va ceduto loro il posto in cima, le donne sono un sollievo per l’uomo.

E poi sbaglia gli attori. Michael Pitt non può reggere la parte principale e Sean Penn non può essergli co-protagonista, perché troppo ingombrante. È lui ad avere l’arco narrativo migliore e la sua recitazione è così più interessante da esporre meglio i contrasti interiori facendoci interessare molto più ai suoi che a quelli del protagonista. Sean Penn sa fare benissimo il lavoro dell’attore (lasciar intendere qualcosa mentre le espressioni dicono altro) mette in scena una ostentata durezza lasciando intuire in fondo al suo mutismo una forma di fragilità incattivita, che è decisamente più attraente e filmico della tensione monocorde di Pitt

E tutto questo per celebrare la difficoltà di quel lavoro, giustificando gli eccessi, mettendo una luce sul costo in termini di umanità di questi angeli all’inferno. Pura esaltazione là dove Scorsese e Schrader puntavano all’assoluto. Che sconfitta…

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