Black Box, la recensione

Il divieto a uscire dal proprio condominio fa emergere grandi tensioni tra i suoi residenti. Ma Black Box porta alla luce problemi ordinari

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La nostra recensione di Black Box, presentato in Concorso alla Festa del Cinema di Roma 2023

Come in quello precedente, anche quest'anno in Concorso alla Festa del Cinema di Roma trova spazio un film con al centro un condominio senza più contatti con l'esterno e ribollente di ostilità, vagamente ispirato all'opera di Ballard. Ma se La Tour era come un trailer di un potenziale thriller che non vedremo mai, questo Black Box proprio non vuole mettere in scena un vero e proprio svolgimento, creare della tensione. Il suo obiettivo è infatti un altro.

La Black Box del titolo è un contenitore eretto in un condominio berlinese nel quale prende posto l'incaricato dell'agenzia immobiliare che sta cercando di vendere gli appartamenti nei palazzi. Elemento che dà il via agli eventi ma che presto viene lasciato sullo sfondo: la "scatola nera" diventa riferimento alla struttura stessa. Qui infatti i residenti vengono rinchiusi quando, senza spiegare perché, la polizia decide che nessuno deve più uscire fino a nuovo ordine. Quello che sembra questione di poche ore si trasforma in un incubo senza fine, che costringe le persone al suo interno a una convivenza forzata.

Emergono così segreti mal celati, avversioni reciproche che si trasformano in aggressioni, loschi affari atti a danneggiare i residenti. La regista e sceneggiatrice Asli Özge mette dunque in scena un microcosmo umano che diventa espressione di una società intera, con soggetti eterogenei da far mettere a stretto contatto e studiarne le reazioni. La peculiarità è mostrare una situazione simile a quella vissuta con il confinamento pandemico che però avviene dopo il Covid, di cui i protagonisti sono consapevoli. Quest'ultimi non accettano dunque il nuovo divieto proprio alla luce di quanto già esperito. Black Box è dunque una buona descrizione di cosa rimane da un esperienza (quasi) universale, ma i suoi motivi d'interesse si esauriscono quasi interamente in questo aspetto.

Per quasi tutte le due ore di durata, si assiste a una sequela di piccoli problemi quotidiani (litigi di coppia, pregiudizi, cose non dette…) che non riescono mai a catturare l'attenzione. Il film infatti, attraverso personaggi e questioni ordinarie, non porta in superficie riflessioni pregnanti o diverse da quello che si possono aspettare da una situazione del genere. Allo stesso tempo, cosa si cela dietro il confinamento e la presenza della polizia, si può intuire solo da piccoli indizi e veloci spunti che faticano a far andare avanti la storia e non forniranno mai un quadro completo. Ma se questo poteva essere la base per un buon thriller dal finale aperto, è chiaro che non si arriva neanche lontanamente in questi territori: la potenziale dimensione mystery viene del tutto schiacciata dall'orizzonte sociologico del film, suo asse portante ma anche sua zavorra. Lasciando lo spettatore con nient'altro che frustrazione.

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