Black Adam, la recensione

L'esordio di Dwayne Johnson nei cinecomic dimostra che l'imponenza del suo fisico è inutile nel momento in cui la forza non dipende da quello

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Black Adam, in uscita al cinema il 20 ottobre

Paint It Black dei Rolling Stone per accompagnare Black Adam nella ricerca della sua identità e del suo nome, che nel mondo dei supereroi sono talmente sovrapposti da aver portato negli ultimi anni diversi film a far coincidere l’arrivo del nome con la maturazione del proprio posto nel mondo, del proprio schieramento nella linea (piuttosto corta) tra buoni e cattivi. E proprio il posizionamento politico è il centro di Black Adam, che tra tutti i film tratti dall’universo fumettistico DC è il più dichiaratamente politico, quello cioè che ha più a che fare con le dinamiche di potere e sovversione tra chi ha e chi non ha, tra chi domina e chi è dominato in un paese di finzione che sembra vivere dinamiche di oppressione che conosciamo e abbiamo visto accadere in medioriente.

Chi decide chi è l’eroe? Lo decidono le persone al potere, che veicolano informazioni, dettano legge, manipolano la storia e le leggende, oppure lo decide il popolo che tuttavia osanna più che altro la violenza e chiunque possa fare qualcosa per loro, a prescindere dalle intenzioni del singolo e dei suoi metodi? Lo deciderà una squadra speciale di eroi minori del mondo DC inviata a contrastare questa minaccia a ruota libera? Alla fine (spoiler) lo deciderà il mondo dei fumetti stesso, che in Black Adam è presente, si vedono proprio gli albi degli eroi DC, i poster e la loro mitologia che un bambino racconta e in un certo senso impone a Black Adam stesso, rivoluzionario dei tempi antichi, risvegliato nel presente, potentissimo e indeciso su per chi e cosa combattere ma anche come. La via degli eroi da fumetti (che da sempre nel mondo DC è argomento di negoziazione per tanti eroi) sarà quella da seguire, proprio perché esistono loro e il loro esempio.

La Warner affonda le mani nel passato della narrazione e realizza un film non proprio modernissimo, in cui il grande e potente eroe minaccioso e violento (molto molto violento) è temperato da un ragazzo pieno di ideali con mamma rivoluzionaria a carico, in cui la banda di supereroi buoni che è mandata a contrastarlo (la Justice Society) è formata da un leader, un deuteragonista saggio e due giovani tra cui può scoccare l’immancabile amore. Pura accademia, cinecomic più ordinario che mai, che fatica ad appassionare davvero e a cui manca anche il valore aggiunto di Dwayne Johnson, il quale sotto il costume non ha bisogno di protesi per la muscolatura ma che è anche totalmente disinnescato da un film scritto in modi così ordinari, nel quale la sua forza è più fasulla che mai.

Un attore la cui presenza imponente è tutto, la cui idea di azione si fonda sulla paradossale credibilità che un corpo simile possa effettivamente fare cose incredibili, è inutile in un universo in computer grafica pieno di super poteri, in cui anche il corpo di un bambino potrebbe fare quel che fa lui risultando credibile. Mentre quindi Black Adamtrova la sua identità guardando una sua statua colossale (ma quante statue colossali di eroi esistono nell’universo DC?!), Dwayne Johnson vede diluita la sua e il suo possibile contributo. Quando gli eroi di questo film se le danno di santa ragione in una stanza piena di poster degli eroi maggiori, l’impressione è che quelle immagini bidimensionali (con il portato mitico costruito in precedenza) siano comunque più carismatiche e attraenti. Guardiamo e ci stupiamo dei disegni di Batman e Superman distraendoci da chi in quel momento dovrebbe avere il riflettore.

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