Una birra al fronte, la recensione

Con una storia molto simile a Green Book (ma con maggiore potenziale) e un protagonista sbagliato stavolta Farrelly raccoglie il minimo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Una birra al fronte dal 30 settembre su Apple TV+

Dietro a Una birra al fronte ci sono tutti ma proprio tutti i trucchi dell’arsenale sfoggiato da Peter Farrelly in Green Book. Del resto il team creativo è esattamente quello e la storia (vera, ovviamente) è molto simile, solo ingrandisce il viaggio attraverso gli Stati Uniti alla scoperta del razzismo da parte di un razzista come tanti altri, in un viaggio attraverso il Vietnam alla scoperta di cosa sia la guerra da qualcuno che, come molti, la sosteneva da casa credendo ciecamente al presidente Johnson. È sempre la storia di come muoversi, andare in loco e viaggiare sia una forma di conoscenza ed esperienza e di come le idee e la mentalità delle persone non le cambino i discorsi ma le esperienze.

A sorpresa però Una birra al fronte ha un protagonista potenzialmente molto migliore di Nick Vallelonga, perché dotato di un grandissimo conflitto temperato da una grande indolenza a cui non sa resistere (sente di non fare niente della sua vita e desidera di più senza il coraggio di provarci), crede nella guerra ma non davvero in maniera profonda, ed è capace di atti estremi. Un personaggio perfetto che però segna la definitiva sconfitta di Zac Efron nella disciplina della recitazione. Come sempre è molto corretto e fa tutto giusto ma nonostante abbia per le mani una bomba non riesce ad innescarla, non è davvero interessante, non dà forma ad una personalità originale e in buona sostanza non costruisce sopra quello che è scritto ma esegue ciò che legge. Quello che faceva Viggo Mortensen con un personaggio più convenzionale e quello che fa con molti meno minuti a disposizione Russell Crowe (che quando serve c’è sempre) con il suo reporter di guerra che dovrebbe solo aiutare il protagonista ma in realtà dice tantissimo su come si viva la guerra, sono un’umiliazione per Zac Efron.

È semmai più curioso come Peter Farrelly stavolta non si appoggi ad una storia che sembra da sola mettere sul piatto il proprio tema ma anzi prenda un intreccio che decenni e decenni fa sarebbe servito a fare propaganda a favore dell’esercito e lo ribalti. La storia di uno che non sa niente della guerra, pensa non sia la tragedia che è ma addirittura crede di potersi imbarcare da solo e portare delle birre agli amici al fronte, è l’incastro tipico per mostrare in realtà il valore, la dedizione e l’eccellenza dell’esercito, per guardare dagli occhi di uno che non se lo aspettava quali cose incredibili si facciano in guerra. Invece qui è un viaggio nel caos (che purtroppo non sembra mai davvero tale), nell’impreparazione e nella menzogna. Quello che il protagonista apprende non riguarda i soldati ma lo stato. 

Questo è vero benché Farrelly voglia attutire tutti i momenti più duri levando il sonoro nelle scene più impressionanti per sostituirlo con dolci musiche anni ‘60. L’obiettivo è creare un contrasto ma questo invece di rafforzare l’orrore (come in Kubrick) lo depotenzia, e traduce concetti brutali per un pubblico che non vuole essere impressionato da un film. A furia di asciugare e attutire quindi quello che rimane di un film che, vale la pena ripeterlo, ha un intreccio di grande impatto (come farà questa persona sprovveduta a girare davvero per tutto il Vietnam e tornare a casa vivo?) alla fine è il discorso più scontato, quello sulla necessità di una stampa libera e onesta, di credere alle notizie e non alla propaganda di un presidente che parla come Trump e scredita i media. Tutto serio, tutto importante ma l’impressione è che si tratti delle suggestioni più morbide con le quali uscire dal film.

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