Bird Box, la recensione
Poco fiducioso del suo spunto di partenza Bird Box non è preciso e cerca di creare interesse mescolando la storia
Seguiamo la storia secondo due linee temporali: una è quella dell’origine di tutto, il primo giorno in cui il mondo ha iniziato ad impazzire per via di questa sindrome; l’altra è 5 anni dopo la catastrofe, con una Terra decimata, la protagonista che non è più incinta ma bada a due bambini ed è intenzionata a scendere lungo un fiume in piena, ovviamente tutti bendati.
Saltando tra l’una e l’altra linea temporale cominciamo a capire che si tratta di un espediente per rendere più interessante una trama che in sé non lo è moltissimo e che si fonda sul nascondere cosa sia che faccia impazzire la gente. Proprio quel mistero infatti rende alcune scene di suspense efficaci.
Ad un certo punto si potrebbe pensare che negli anfratti di questo film si annidi un grande secondo livello di lettura che abbia a che vedere con il cinema. Nella storia di una minaccia che non va vista e quindi dell’atto del guardare come una pratica mortale, sembra esserci da un momento all’altro, pronta a balzare, una grande allegoria con il cinema e le arti visive. Non è chiaro se a Susanne Bier vada bene così, se abbia lasciato sufficiente spazio per chi ci volesse vedere qualcosa ma alla fine è evidente che Bird Box è molto meglio se preso come un film fine a se stesso con un solo ed unico livello di lettura: il primo.
Eppure, al netto di tutto ciò, va riconosciuto proprio a Susanne Bier di riuscire a fare di questo film pieno di problemi una cavalcata che si segue con piacere. Viene insomma da pensare che in mano ad un’altra persona sarebbe stato decisamente peggio, che la risibile durezza di Sandra Bullock e l’insistita voglia di creare mistero senza avere davvero in mano delle carte che diano soddisfazione una volta svelato, sarebbero state decisamente meno sostenibili con qualcun altro in cabina di regia.