Billy Lynn: Un Giorno da Eroe, la recensione

Ang Lee continua a mescolare indagine interiore con tecnologie digitali, Billy Lynn: Un giorno da Eroe è una bolla emotiva che scoppia quando è già ingerita

Critico e giornalista cinematografico


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Prendendo alla lettera l’idea di viaggio interiore presente nel romanzo omonimo, Billy Lynn: Un Giorno da Eroe utilizza la storia di una giornata nella vita di un giovane reduce pronto a tornare sul fronte per arrivare così vicino, così prossimo all’esposizione delle pulsioni più elementari dell’animo umano e farle combattere contro l’essere meno preparato a gestirle (un ingenuo ragazzo che da poco non è più adolescente), che è davvero impossibile rimanere indifferenti alla dolcezza con cui questo protagonista è sballottato da pressioni emotive e sessuali, riprese come i giganti che possono sembrare agli occhi di chi le esperisce per la prima volta. Se l’inferno sono gli altri Billy Lynn: Un Giorno da Eroe è la cronaca del viaggio negli inferi di un ragazzo che pare possa diventare uomo solo ora, davanti ai nostri occhi, in questo giorno di maturazione sentimentale e non attraverso le atrocità viste in guerra.

Billy, assieme alla sua compagnia, è ospite dello show d’intervallo della partita dei Dallas Cowboys nel Giorno del Ringraziamento, quello che nel 2004 fu animato dalle Destiny’s Child (questo). È una giornata di vacanza e festa per loro, sono celebrati come eroi per quel che è successo al fronte, eventi che vediamo in alcuni flashback intervallati con il presente.
Tra i ricordi e la retorica della celebrazione nel presente, c'è tantissimo della guerra e di come la viva l'America in Billy Lynn, così tanto da esserne distratti al punto che quando la tensione sentimentale accumulata silenziosamente esplode è come un fuoco d'artificio che riporta l'attenzione alle uniche cose che contino per Ang Lee, lo stordimento e la vertigine emotiva che quasi impediscono di pensare.

In questo giorno di festa c’è infatti la sorella di Billy che lo implora di non ripartire e ha organizzato tutto per il suo congedo, se solo lo volesse, e c’è un ricco magnate che vuole fare un film della loro avventura in guerra (un grandissimo Steve Martin). E poi c’è il mondo del fronte interno, che pare essere separato come da un fossato insuperabile da quello dei militari, come se non potessero nemmeno interagire, se facessero parte di culture così diverse da non capire gli uni i costumi degli altri. E non sono i militari quelli cinici, semmai in questo film visti da un 19enne ancora vergine sono un mondo di amore in cui Vin Diesel, comandante in capo dice ad ogni singolo soldato "Ti voglio bene" prima di andare a combattere, con tale convincente e indispensabile evidenza da superare ogni retorica militarista per approdare direttamente al miglior umanesimo possibile quello di John Ford e Howard Hawks.

L'abisso tra fronte vero e fronte interno si misura anche nello show pacchiano dal sottotesto violentissimo e sessuale, la guerra come spettacolo e celebrazione, o nei tantissimi americani civili, dai più scemi e rissosi (che Billy e gli altri vedono ormai come alieni anche se loro erano così solo qualche mese prima) fino ai più innamorati dell’ideale eroico del soldato, una carrellata di altri alieni che il film riesce perfettamente a mettere nella prospettiva più correttamente grottesca. E poi ancora c’è un’inaspettata e fortissima pulsione erotica, vera eccitazione momentanea per una cheerleader che anche lei pare desiderare non tanto Billy ma il corpo del soldato eroe, perfetto esempio di un mondo innamorato di quel che lui rappresenta solo fino a che intende continuare a rappresentarlo. Un esempio che Ang Lee riprende con una voglia di contatto che basterebbe da sola a comunicare lo scombussolamento adolescenziale di fronte alla potenza del corpo.

Billy Lynn è vittima di tutti questi stimoli con una calma e silente resistenza che sono il segreto dell'improvvisa e irrefrenabile commozione scatenata dal film. Dovrà decidere che fare, spossato da mille spinte interiori differenti su cui Ang Lee lavora con precisione certosina, sfruttando soggettive, inquadrature frontali, continui scavalcamenti di campo e un profusione di green screen che rendono questo film stravagante e straniante, delirante senza bisogno di alcuna psichedelia o forzatura, solo scardinando il solito piccolo set di regole condivise. Tutti espedienti ben accoppiati alle tante pelli diverse, da quella lucida e sudaticcia del magnate fino a quella sfregiata della sorella, o quella lasciata esposta dal costume di una cheerleader così carnalmente vogliosa di un pezzo di eroe (che lui sarebbe molto incline a fornire).

Quattro anni dopo questo regista sembra insomma ancora con la testa dentro Vita di Pi, visto come di nuovo il viaggio nella mente, nelle contraddizioni e nei dubbi esistenziali di un essere umano è un’immersione nella computer grafica digitale, in un cinema che è meravigliosa finzione esposta. Come se l’unico modo per raccontare una presa di coscienza, la maturazione e la comprensione di sé passasse per rompere ogni realismo o convenzione del cinema.

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