Big Mouth (prima stagione): la recensione

Pulsioni sessuali e sviluppi traumatici dell'adolescenza in Big Mouth, la nuova serie animata in onda su Netflix

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
Quello dell'incontro con il mostro è uno dei simboli più utilizzati, ed efficaci, quando si vuole narrare del trauma della crescita. Lo faceva Nel paese delle creature selvagge, e così il più recente Sette minuti dopo la mezzanotte. Potremmo non accorgercene, sommersi da un mare di sconcezze e volgarità assortite, ma Big Mouth fa esattamente la stessa cosa. La nuova serie animata di Netflix parla di un gruppo di ragazzini di entrambi i generi che si trova ad affrontare la pubertà, le esplosioni ormonali e i cambiamenti fisici tipici dell'età. Non ha la brillantezza delle migliori serie animate oggi in tv, ma è comunque divertente e interessante nel modo in cui spinge il limite su ciò che è “possibile” vedere nell'animazione.

I protagonisti sono quattro ragazzini, due maschi, Andrew e Nick, e due femmine, Jessi e Missy. Hanno circa tredici anni e, come detto, si stanno confrontando con i cambiamenti della pubertà. La scrittura non va tanto per il sottile, né verbalmente né visivamente. Si parla di masturbazione, di mestruazioni, di pulsioni sessuali e fantasie erotiche di minorenni. Anche se in una forma molto cartoonesca, vengono mostrati i genitali tanto dei ragazzi quanto delle ragazze, e le scene di natura sessuale non mancano. Il linguaggio segue di pari passo le immagini. Nulla è filtrato, le volgarità abbondano e l'intera stagione, composta da dieci episodi, è incentrata su queste.

La serie ha quattro ideatori: Nick Kroll, Andrew Goldberg, Mark Levin e – per chi ritiene significativa una presenza femminile in questo tipo di prodotti – Jennifer Flackett. Il primo punto di riferimento, nel mare dell'animazione per adulti, è South Park. Il paragone con la serie storica di Matt Stone e Trey Parker tuttavia mitiga in ogni momento la portata della provocazione di Big Mouth. E questo può essere un problema, nel momento in cui rischiamo di non sorprenderci più in mancanza di una scrittura che sia intelligente almeno quanto è pesante la provocazione. Da questo punto di vista, e quindi mettendo da parte il suo carattere più disturbante, Big Mouth non è mai una serie esplosiva.

Ciò non toglie che, dopo un attimo di spaesamento, e una certa abitudine al design sgradevole dei personaggi, possa diventare divertente e piacevole. Qui rientrano in gioco i mostri che dicevamo all'inizio. Il personaggio di Andrew si accompagna ad una creatura che si chiama “mostro degli ormoni”. Tanto per essere chiari, il principale obiettivo del mostro è spingere il ragazzino a soddisfare in ogni modo le proprie pulsioni sessuali, senza troppo riguardo per la situazione o per ciò che sarebbe giusto fare. Un corrispettivo identico, ma femminile, appare a Jessi dopo il primo ciclo e, per quanto sembri strano l'accostamento, sembrano due mostri usciti dal paese delle creature selvagge.

Grande parte delle battute viene veicolata dalle creature e in generale da tutto ciò che è sovrannaturale e che circonda le vite di questi ragazzini. Per fare un esempio, una presenza ricorrente è quella del fantasma di Duke Ellington, doppiata da Jordan Peele, il regista della rivelazione horror Get Out. Non c'è nessuna logica interna, tutto può accadere e nessuno si stupisce troppo: appunto, South Park.

I momenti più interessanti - gli unici in effetti - allora sono quelli dedicati alle ragazze e in particolare a Jessi. Ragionare in modo assoluto per target è sempre sbagliato, ma potremmo azzardarci a dire che questi prodotti solitamente sono a vocazione maschile. Invece qui c'è una prospettiva diversa rispetto al solito che parla in modo sboccato ad una nuova generazione di adolescenti. È un racconto di formazione? Da un certo punto di vista sì, anche se qui l'obiettivo sembra essere quello di esorcizzare il “mostro” della crescita in sé, giocando sull'identificazione piuttosto che sull'educazione. E se questo va bene per American Pie, altro effetto potrebbe fare trattandosi di tredicenni. Ma qui dipenderà dalla sensibilità di ognuno.

Continua a leggere su BadTaste