Big Eyes, la recensione

Cambia registro, scambia i suoi ruoli classici e si nasconde molto. In Big eyes per la prima volta da decenni Tim Burton rinuncia al suo stile

Critico e giornalista cinematografico


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C'è un momento preciso all'inizio di Big eyes in cui è facile riconoscere Tim Burton, il suo stile e il suo mondo: è quando la protagonista nella prima scena scappa dal marito.

La vediamo lasciare una specie di deserto riempito di villette a schiera tutte uguali sotto un cielo mostruosamente vuoto e senza nuvole, un luogo che molti riterrebbero idilliaco, ma che visto dal punto di vista e con l'occhio di Burton è un incubo, e poi procedere lungo paesaggi ritoccati al computer per essere eccessivamente belli e lussureggianti, verdi e pieni di sole. È il vecchio paradigma burtoniano per il quale i luoghi apparentemente più splendenti, modellati per essere oasi di presentabilità, ordinati e corretti sono in realtà la culla delle persone peggiori o delle situazioni da incubo.
Si tratta dell'unico segno forte burtoniano in un film che per la prima volta marginalizza la mano pesante dell'autore. Anche il tema (un'artista kitsch e pessima che ha i medesimi problemi e il medesimo coinvolgimento personale dei grandi maestri in quel che fa) non è trattato in stile Ed Wood come si poteva credere ma da un punto di vista diverso.

Quello che segue la prima burtonianissima sequenza è infatti un film in cui per la prima volta da Pee Wee's Big Adventure quest'autore così riconoscibile si nasconde, un period movie tratto dalla vera vita di Margaret Keane, in cui gli anni '50 sono il luogo da incubo (per le donne) esplorato nella storia. Questa novità dona al film una freschezza che altrimenti non avrebbe. Anche sotto il riflettore non c'è più Edward mani di forbice ma Kim. Il freak, menzognero, pieno di sè e inevitabilmente cialtrone nella sua scaltrezza è infatti il villain, cioè il marito che spaccia per propri i quadri della moglie con la scusa di poterli vendere meglio, mentre la donna artista, angelica, remissiva e facilmente manipolabile è la vittima. Per seguire la realtà storica Tim Burton ribalta i ruoli che ama dipingere e il risultato è che nella figura condannabile e riprovevole di Walter Keane ci sono un amore e un affetto solitamente sconosciuti al cinema solitamente manicheo delle biografie.

Purtroppo i meriti di Big eyes si fermano qui. Senza curare troppo la precisione di scrittura (qualcuno che conosce il segreto dei protagonisti c'è fin dall'inizio ma sembra che nessuno, lui incluso, se ne accorga) pare che il film venga ben presto a noia al suo stesso autore, il quale fa di tutto per ravvivarlo, anche molto di quel che non sarebbe necessario (la terribile pantomima al processo). Abbandonato il principio autoriale e snob di fare film diversi da tutti, inseguendo una visione molto personale che ben presto ha scoperto essere in grado di parlare a molti, Tim Burton a larghi tratti sembra qui cercare di fare un film che piaccia al pubblico e non a se stesso, sembra cercare di divertire gli altri senza divertirsi per primo. Si nota un'artificiosità eccessiva, una voglia di stupire quando forse non ce ne sarebbe bisogno e la totale mancanza invece di quei dettagli sentimentali che rendevano i suoi film migliori (ormai lontani quasi due decine di anni) unici.

Big eyes non è affatto un brutto film, ma uno normale, con qualche pregio e diverse leggerezze. Che forse è il massimo che si possa chiedere al Tim Burton di oggi.

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