Better Call Saul 1x01 "Uno"/ 1x02 "Mijo": la recensione

Prende il via con una riuscita doppia première l'attesissimo Better Call Saul, spin-off di Breaking Bad

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Spoiler Alert
Per Breaking Bad era una casa devastata e l'enorme scritta "Heisenberg", per Better Call Saul è un malinconico bianco e nero e una capigliatura ormai stempiata. Ancora una volta Vince Gilligan tiene con mano ferma le redini della storia, e la racconta a modo suo, partendo da un flashforward che stavolta sembra avere un sapore diverso. Nella serie madre infatti rappresentava l'ignoto, l'irrazionale, eppure l'inevitabile, e tutto si tramutava in una folle corsa verso il collegamento con quel finale che già conoscevamo in parte. In questo spin-off, invece, il bianco e nero del prologo, in cui vediamo Saul (Bob Odenkirk) sprofondato in un ruolo che non gli appartiene, è la pietra definitiva su ciò che è stato e che non potrà più tornare. C'è nostalgia, tristezza, forse rimpianto in quest'uomo che si guarda attorno ad ogni passo, timoroso di essere scoperto, e che poi torna a casa costringendosi a riascoltare quegli improbabili spot pubblicitari con i quali avevamo imparato ad amarlo.

È inutile negarlo, c'era parecchia attesa, ma anche parecchia incertezza intorno a Better Call Saul. Vince Gilligan aveva tutta la nostra fiducia, ma mettere le mani su un capolavoro – probabilmente irripetibile – significava esporsi in primo luogo ad un impietoso paragone che, per forza di cose, sarebbe arrivato, e in secondo luogo si poteva quasi "sporcare" il ricordo immacolato ancora vivo dopo gli eventi di "Felina". Insomma, la scommessa era rischiosa e ci si poteva far male giocando con i sentimenti dei fan. Già dopo due episodi tuttavia possiamo dire che le nuvole iniziano a diradarsi, e che splende un sole molto promettente su Albuquerque.

La nuova serie trasmessa da AMC ci lascia con una conferma e una sorpresa. La prima, come era facilmente intuibile, è che Better Call Saul non è un prequel in senso stretto, quanto più uno spin-off ambientato nel 2002. Il sentimento di nostalgia e di "ritorno a casa" è intatto, e non saranno pochi i riferimenti alla serie madre (compreso l'apprezzatissimo cameo di Tuco). Ma una volta avviato il motore della narrazione tutto sembra puntare verso una direzione propria e originale, fatta di riuscite e sorprendenti variazioni sui temi e lo stile di Breaking Bad. Già iniziamo a muoverci in un ambito che ovviamente è più congeniale al nostro protagonista, che in questo momento ancora non ha assunto lo pseudonimo con il quale lo conoscevamo, ma è noto nell'ambiente – o almeno lui vorrebbe esserlo – come Jimmy McGill. E quindi insoddisfazione, povertà, problemi in famiglia, con il fratello Chuck (Michael McKean), apparentemente affetto da ipersensibilità all'elettromagnetismo e forse tenuto in sospeso dal prestigioso studio legale presso cui lavorava.

La sorpresa è la fortissima continuità con lo stile particolare di Breaking Bad. Ci si aspettava uno show più marcato sul lato comedy, e invece fin dalle prime battute ci troviamo di fronte ad una serie che non lesina momenti drammatici e che non farà alcuno sforzo per renderci la visione il più agevole possibile (c'è anche un momento di legittima confusione ad un certo punto del pilot). Per capirci, si ride e sicuramente si riderà più che in Breaking Bad, ma la crudele ironia, quella scatenata da furiosi e improbabili attimi di violenza o da assurde coincidenze che, in puro stile Coen, ma anche Tarantino (andare a finire per sbaglio nella casa di un boss completamente pazzo richiama troppo Pulp Fiction per essere solo una coincidenza), si abbattono senza preavviso sulle vite dei protagonisti, è la stessa. Questa non è una versione più leggera dell'universo di Walter White, è esattamente lo stesso mondo in cui teste decapitate si muovono sul dorso delle tartarughe, ma ci appare più leggero perché filtrato dalla figura grottesca e ridicola di quell'azzeccagarbugli che è Saul Goodman, che getta una luce particolare su tutto il resto.

È bello il modo in cui viene costruito un singolare paragone tra Walter e Saul, e come Gilligan ci lasci il potere di smantellare le sottili analogie tra i due con un confronto a distanza. Fondamentalmente il loro cammino iniziale è quello di due uomini falliti, insoddisfatti e frustrati dalle circostanze della vita. Ed entrambi finiranno per indossare una maschera che coincide con uno pseudonimo adatto al loro lavoro. Non può essere una coincidenza il dettaglio dell'ammaccatura su un cestino sul quale l'avvocato sfogherà la sua rabbia, e che ci riporta al portasciugamani fracassato dal signore della droga. Eppure Walter non aveva idea di cosa volesse dalla vita, e solo un evento esterno come il cancro ha scatenato l'Heisenberg che c'era in lui. Saul invece sa fin da subito cosa vuole diventare, ciò che cambia sono le circostanze avverse che, stando al finale del secondo episodio, apriranno per lui strade pericolose.

Tecnicamente poco altro da dire. C'è semplicemente la soddisfazione e il piacere di trovarsi davanti a qualcosa diretto, scritto e interpretato con cura, e tanto basta. Solo qualche differenza nella fotografia in una scena ambientata nel deserto – la migliore di questa doppia première – con Michael Slovis che ha lasciato il posto a Arthur Albert, che comunque già aveva lavorato in Breaking Bad. L'inizio di questa storia è davvero molto incoraggiante.

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