Berlino 2012: Molto Forte, Incredibilmente Vicino - la recensione

Stephen Daldry confeziona un film strappalacrime che si prende alcune libertà rispetto al romanzo originale e propone interpretazioni da applausi...

Condividi

Ci sono film che non c’è niente da fare, sai che ciò che stai vedendo è oltremodo strappalacrime, che ogni scena madre (e sono molte) è costruita per commuoverti e che è proprio su questo senso di colpa - lo spettatore si sente più fortunato del protagonista della vicenda - che gli autori hanno puntato forte per convincerti che il tutto ti piaccia, ma non ci puoi fare niente, è difficile resistere e già dopo pochi minuti sei una fontanella.

Molto forte, incredibilmente vicino fa parte di questa categoria. Non è un film furbo come il peggiore Inarritu di Biutiful o il pessimo E ora parliamo di Kevin, qui non si calca la mano sulla sfortuna dei personaggi spingendo il pedale sempre più a fondo, ma è indubbio che realizzare cinque flashback su “gli ultimi messaggi lasciati in segreteria dal padre intrappolato in una Torre Gemella che sta per crollare” vada oltre il buon senso e sia solo finalizzato a scioglierti il cuore. E questo è solo uno dei tanti esempi di una sceneggiatura che, dopo una buona partenza, torna troppe volte indietro, rispiegando storie ed emozioni già spiegate, invece di andare avanti e aprire nuovi orizzonti narrativi.

E dire che per il resto questa trasposizione dal celebre libro di Jonathan Safran Foer non è niente male. I giri per la città del ragazzino che cerca di interrogare tutti coloro che fanno Black come cognome a New York per trovare a chi appartenga una misteriosa chiave dentro una bustina con su scritto, per l’appunto, Black, funzionano sia nella costruzione di ogni incontro che nelle scene di raccordo. Con poche immagini e dettagli il regista Stephen Daldry ricostruisce un intero mondo di storie e “perdite” che erano il fulcro del libro di Foer e che qui, purtroppo, servono solo fino ad un certo punto.

Le differenze con il libro infatti sono molte. Dove il testo di Foer faceva del lutto del giovane protagonista l’emblema di una tragedia collettiva, ovvero l’undici settembre e New York (appositamente messo in parallelo con il terribile bombardamento di Dresda del febbraio del 1945 raccontato dal nonno), qui si punta più sul concetto generale di lutto e della difficoltà di chi l’ha subito nel girare pagina. C’è il tentativo di rendere “corale” il senso di perdita, ma non è legato direttamente all’attacco delle Torri Gemelle. La decisione di dare anche un finale alla chiave misteriorsa, per quanto sia perfettamente in linea con le esigenze del grande pubblico, stona se messa a confronto con la ben più coraggiosa scelta del libro di lasciare l’interrogativo aperto. Il film di Daldry sembra voglia giocare più sul sicuro e se dal punto di vista emotive prende e stringe, da quello autoriale lascia parecchio a desiderare.

Le interpretazioni di tutto il cast sono però da applausi. Seppur con poche scene, sia Max Von Sydow (candidato all’Oscar per questo film) che Sandra Bullock rubano la scena, così come è convincente il ragazzino Thomas Horn. Tom Hanks fa il suo e fa piacere rivederlo in un film di un certo valore dopo tanti passi falsi (anche se sembra in generale che proprio non gli vada più di fare l’attore).

 
Continua a leggere su BadTaste