Berlino 2012 - La chispa de la vida, la recensione

Ridimensionato nelle ambizioni e nell'umorismo rispetto al suo solito, ma forse più cinico che mai, il nuovo film di Alex de la Iglesia parla di lamine di ferro conficcate nel cranio...

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sono due Alex de la Iglesia, uno che pensa in grande e realizza affreschi ambiziosi ed epici (ultimo dei quali La ballata dell'odio e dell'amore) e uno che pensa in piccolo e fa film su piccoli fatti. In entrambi i casi la sua prospettiva è sempre la stessa: l'inferno sono gli altri, la vita del singolo è distrutta dalle continue ingerenze della massa.

In La chispa de la vida la massa sono i media ("La gente ha la televisione che si merita" viene detto ad un certo punto) che arrivano di corsa a riprendere il caso del protagonista, caduto da un'impalcatura di un museo appena finito di costruire, dritto su una grata di ferro, nella quale uno dei ferri sporgenti gli si è conficcato nella nuca ma non l'ha ucciso, anzi non ha avuto nessun effetto su di lui se non quello di costringerlo a rimanere fermo in attesa che qualcuno trovi una soluzione. Tutti accorrono al suo capezzale e lui cercherà di fare quanti più soldi gli è possibile da questa situazione.

C'è un momento in cui de la Iglesia inquadra il suo protagonista infermo sulla grata in una posizione da Cristo crocefisso. Il suo però non è un sacrificio per l'umanità quanto per se stesso. Incapace di essere all'altezza delle aspettative che aveva per sè (ha perduto il lavoro e non lo trova più), sta vendendo consapevolmente il suo corpo alla televisione per quel che può, l'ultima possibilità per lui di fare dei soldi.

Non è tuttavia nella meafora cristologica che La chispa de la vida trova il suo senso maggiore, quanto nell'idea che siamo quello che ci meritiamo. La grande metafora di un uomo che sta morendo in un luogo di cultura (da cui le autorità e il sistema politico cercano di trarre denaro e visibilità) e la sua morte che viene saccheggiata dai media per autoalimentarsi (sosituendo il massimo dell'alto al massimo del basso all'interno di quel museo), è fomentata lungo tutto il film da mille piccole comparse, mille personaggi minori che portano avanti il saccheggio.

Il modo in cui Alex de la Iglesia usi un umorismo senza la minima pietà, per comunicare la più cinica, pessimista e indigeribile delle idee, ovvero che il peggior nemico dell'uomo è la società nel suo complesso e che la vittima stessa sia parte integrante di questo sistema deleterio, ha sempre del fantastico. Anche se privo di Jorge Guerricaechevarria (sceneggiatore fenomenale che in passato aveva molto collaborato con il regista), de la Iglesia mette in piedi uno script di rara cattiveria, in cui il divertimento non è eccessivo ma ogni battuta è una stilettata e in cui ogni occasione per portare in basso i suoi personaggi (soprattutto il protagonista) viene sfruttata.

Questa caratteristica fissa (ma sempre sorprendente) del suo cinema è quella che lo rende davvero insostituibile.

 
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