Berlinale 2019 - Il Mostro di St. Pauli (The Golden Glove), la recensione
La storia vera del serial killer di Amburgo è un viaggio senza censure in un mondo lurido, puzzolente e fetido, The Golden Glove ci mette accanto ad un mostro invece che guardarlo e giudicarlo da lontano
La storia di questo film è quella di un noto serial killer attivo ad Amburgo negli anni ‘70 che in quel locale avvicinava le sue vittime. È il bar il protagonista di questo film, simbolo di quel mondo derelitto, squallido e sudicio che riesce a campare solo stordito dall’alcol, in cui un uomo orrendo ravanava le donne più disperate e intontite dalle bevute per del sesso insoddisfacente che spesso culminava in una macelleria. E quel bar è un posto incredibile, è la vera impresa del film. Una creazione iperrealista che a primo impatto sembra il bar in cui inizia La Paura Mangia L’Anima privato però della patina cinematografica e restituito alla reale puzza e sporcizia.
Il resto della storia sarà un viaggio accanto al killer, uno che non risparmia dettagli e non chiude gli occhi davanti a niente, che mostra bene la disumana sete di morte eppure rimane così vicino al protagonista da scatenare una strana empatia. Fritz il killer non è un prodotto malato della società o il frutto dell’infelicità acuita da chi gli sta intorno, non ci sono scusanti, è un mostro che quando è alimentato dall’alcol sfoga frustrazione e repressione nell’omicidio delle donne più indifese (per questo la reazione di una vittima più combattiva delle altre, una prostituta con un passato nei campi di concentramento, quasi scatena l’applauso).
Alla fine non ci possono essere dubbi sulle colpe o sulla condanna, che è totale e senza appello, ma la grandezza di The Golden Glove, sta nel rappresentare il peggio e riuscire lo stesso a piantare un seme di pietà nel cuore dello spettatore. L’impresa più umana e più difficile di tutte, non voltare le spalle davanti ai peggiori ma cercare di capire chiunque, non ha mai avuto rappresentazione più degna.