Berlinale 2019 - Synonyms, la recensione
Un israeliano in fuga dal proprio paese trova ospitalità in Francia, Synonyms vorrebbe renderlo un comico esule in fuga da sè ma non trova sempre la forza giusta
La storia di questo ragazzo che sa solo ciò che non vuole essere e che cerca un’identità in una città che potrebbe fornirgliene tantissime, sembra perfetta per la forma comica che Nadav Lapid sceglie. Umorismo surreale, a tratti geniale, fatto di pochissimi elementi e stoccate fortissime ma altrettanto sparute. I 123 minuti di Synonyms tra peripezie urbane, corsi di francese, lavori da bodyguard, avventure sentimentali, colloqui fallimentari da attore porno non hanno tutti la stessa forza comica e il meccanismo di paradossale e grottesco ribaltamento dei valori non sempre funziona.
Fiaccato da un ritmo ingiusto, meritevole di tantissimi tagli che non sono avvenuti e spesso fallimentare negli intenti comici, il film di Nadav Lapid rischia di essere amato più per l'idea che c'è dietro e per quel che è in teoria, una volta capiti i suoi intenti, che per quello che effettivamente è, colmo com’è di tante metafore e simbolismi ingenui e puerili accanto ai pochi davvero funzionanti. Non è difficile farsi prendere da una storia con ampi toni autobiografici, molto personale e autentica, ma il film che la veicola ha più inciampi che successi. Vuole far partire il suo discorso dal corpo ma è più intenzione e ostentazione che pratica (il corpo del protagonista è importante e centrale ma mai significativo), vorrebbe giocare con le parole ma riesce solo a suggerire la possibilità più che a metterla in pratica, vuole essere libero con le sue riprese in diversi formati ma non gli dà mai un senso.