Berlinale 2019 - So Long, My Son, la recensione

Circa 40 anni attraverso i cambiamenti della Cina visti dall'ottica di una coppia che voleva tanto un figlio ma a cui succede di tutto. So Long, My Son è l'epica nazionale che solo in Cina è ancora possibile, per fortuna

Critico e giornalista cinematografico


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La Cina è uno degli ultimi posti in cui è ancora possibile una grande epopea nazionale, il racconto in cui la vita dei singoli attraversa i mutamenti del proprio paese intrecciando vicissitudini personali e nazionali. So Long, My Son è questo, cinema classico al tempo stesso piccolo e gigante. Nello stesso anno di Ash Is Purest White di Jia Zhangke, anche Wang Xiaoshuai (regista della sua medesima generazione) affronta il periodo che va dagli anni ‘80 al tempo moderno: la fine del comunismo, l’arrivo dell’economia di mercato, la violenza del regime, la violenza dei tempi che cambiano sulle persone che rimangono sempre le stesse e restare uniti in tempi di tempesta.

Il faro, volontario o meno, sembra essere Vivere! di Zhang Yimou, perché al netto del fatto che stavolta non ci sono tradimenti e cambi di fronte indotti dalla Rivoluzione Culturale, quella di So Long, My Son è una storia melò straziante affrontata con una leggerezza rinfrescante. Wang Xiaoshuai, sembra preoccupato di annoiare e così spacca la storia in tanti tronchi per poi scambiarli, gioca con il tempo per aumentare la tensione andando di continuo avanti e indietro per creare domande nello spettatore (se il figlio dei protagonisti è morto all’inizio, perché più avanti nel tempo ne hanno un altro?), con l’obiettivo di trovare alla fine il melò di una vita intera in una chiusa che richiama apertamente proprio quella di Vivere!.

L’epoca delle divise, della vita in casermoni, lavori in fabbrica e la regola di un solo figlio per coppia passa da essere regime oppressivo a passato da rimpiangere. Il film vuole subire il trattamento del tempo, vuole cambiare le sue valutazioni più avanza con gli anni.

Non c’è traccia del nostro passato” diranno i protagonisti tornati decenni dopo nel posto in cui hanno vissuto a lungo e trovando una metropoli. Lo dicono mentre in taxi passano accanto ad una statua di Mao che non riescono a non fare a meno di salutare. Di loro e di quel mondo non c’è più niente ma loro sono ancora vivi, ancora lì. Ed è come se non importasse a nessuno.

Come capitava anche nel nostro grande racconto di epica nazionale, C’eravamo Tanto Amati, non è il tempo ad allontanare le persone ma il mutamento economico indotto dal tempo a farlo. Partiti uguali. i personaggi, gli amici e gli amanti finiscono da lati inconciliabili della barricata sociale da cui (e qui sta la rottura con il classico) si abbracciano lo stesso.

Perché oltre al ritratto di “chi siamo e chi eravamo” in questa saga di una famiglia che ha fatto di tutto per essere tale nonostante fato, leggi e alterne fortune, c’è soprattutto un umanesimo devastante. Quello che emerge negli espedienti adottati durante il comunismo per essere liberi, e quello sommesso che passa anche nel presente, in una specie di strano “dopoguerra” in cui ci sono solo resti e macerie, in cui tutti sono più ricchi ma troppo diversi per essere felici. Il tempo in cui leccarsi le ferite, chiedere scusa e commuoversi.

Prima è stato lo Stato a metterli uno contro l’altro, poi l’economia. Lo dimostra una frase di scuse pronunciata sul letto di morte ed è forse il momento più emozionante di un film che sembrava impossibile poter fare ancora oggi e invece c’è.

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