Berlinale 2019 - So Long, My Son, la recensione
Circa 40 anni attraverso i cambiamenti della Cina visti dall'ottica di una coppia che voleva tanto un figlio ma a cui succede di tutto. So Long, My Son è l'epica nazionale che solo in Cina è ancora possibile, per fortuna
Il faro, volontario o meno, sembra essere Vivere! di Zhang Yimou, perché al netto del fatto che stavolta non ci sono tradimenti e cambi di fronte indotti dalla Rivoluzione Culturale, quella di So Long, My Son è una storia melò straziante affrontata con una leggerezza rinfrescante. Wang Xiaoshuai, sembra preoccupato di annoiare e così spacca la storia in tanti tronchi per poi scambiarli, gioca con il tempo per aumentare la tensione andando di continuo avanti e indietro per creare domande nello spettatore (se il figlio dei protagonisti è morto all’inizio, perché più avanti nel tempo ne hanno un altro?), con l’obiettivo di trovare alla fine il melò di una vita intera in una chiusa che richiama apertamente proprio quella di Vivere!.
“Non c’è traccia del nostro passato” diranno i protagonisti tornati decenni dopo nel posto in cui hanno vissuto a lungo e trovando una metropoli. Lo dicono mentre in taxi passano accanto ad una statua di Mao che non riescono a non fare a meno di salutare. Di loro e di quel mondo non c’è più niente ma loro sono ancora vivi, ancora lì. Ed è come se non importasse a nessuno.
Perché oltre al ritratto di “chi siamo e chi eravamo” in questa saga di una famiglia che ha fatto di tutto per essere tale nonostante fato, leggi e alterne fortune, c’è soprattutto un umanesimo devastante. Quello che emerge negli espedienti adottati durante il comunismo per essere liberi, e quello sommesso che passa anche nel presente, in una specie di strano “dopoguerra” in cui ci sono solo resti e macerie, in cui tutti sono più ricchi ma troppo diversi per essere felici. Il tempo in cui leccarsi le ferite, chiedere scusa e commuoversi.
Prima è stato lo Stato a metterli uno contro l’altro, poi l’economia. Lo dimostra una frase di scuse pronunciata sul letto di morte ed è forse il momento più emozionante di un film che sembrava impossibile poter fare ancora oggi e invece c’è.