Berlinale 2019 - Selfie, la recensione
Due amici rimasti nel paese d'estate passano i giorni tra lavoro e niente da fare. Selfie non li guarda ma fa in modo che guardino se stessi scoprendo un'altra lingua per il cinema
Agostino Ferrente è sempre più radicale con le sue scelte e come già gli era capitato di nuovo dà in mano ai soggetti gli strumenti per riprendersi. Lui e la sua troupe rimangono quasi sempre con loro, dietro il cellulare, ma i due amici (sommariamente infarinati) decidono inquadrature, tempi, dialoghi. L’esperimento non è nuovo ma cerca di essere il più radicale possibile mantenendo comunque la presenza della mano dell’autore. Ferrente cerca di annullare come può la mediazione e fare in modo che quel mondo si racconti a parole sue.
Aggiungendo poi alcune interviste ad altri ragazzi e ragazze locali, più video di sorveglianza e immagini dei telegiornali, Selfie aderisce al cinema del reale in una maniera unica. Non è assolutamente impermeabile alla retorica perché non lo sono i due soggetti ritratti e narranti, ma questo sguardo dall’interno non la rende fastidiosa, anzi così sembra che essa appartenere alle immagini.
Nonostante il rapporto tra vita onesta e criminale sia il punto di tutto, Selfie è però anche capace di lavorare tantissimo sul resto. C’è una naturale scarsa attenzione ai luoghi, perché poco vogliono dire per chi filma, tuttavia questa estate calda e vuota, un po’ pigra e in attesa di chissà cosa, sembra uscita da un film d’animazione giapponese nel quale le cicale scandiscono le ore e il fatto che nulla accada sembra il senso di tutto.