Berlinale 2019 - Light Of My Life, la recensione

In un futor post-apocalittico senza donne, un uomo gira con la figlia che maschera da bambino. Light Of My Life però non è interessato al pianeta, ma a loro due.

Critico e giornalista cinematografico


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Quando all’inizio del film Casey Affleck, padre di una bambina di 12 anni circa stesa accanto a lui in un sacco a pelo dentro una tenda, racconta una storia che incrocia quella dell’arca di Noè ma è palesemente inventata all’impronta, non è ben chiaro cosa stia accadendo, solo che è un gran momento di recitazione. Il racconto che sta facendo è inusualmente lungo e il piacere sta tutto nell’interazione tra questo padre che improvvisa e questa figlia un po’ burbera che lentamente si lascia conquistare. Solo alla fine, dopo che lei l’ha inizialmente ammonito (“Non raccontare una storia su di me eh!”) capiamo che lui l’ha fatto lo stesso, lei, come gli animali della storia, è l’ultima della sua specie.

Siamo in un futuro vicinissimo in cui le donne sono tutte morte circa 12 anni prima per una strana epidemia. Affleck non racconta molto di ciò che è successo al pianeta o perché sia accaduto, palesemente non gli interessa spiegare quest’apocalisse, è importante solo che abbia creato un disequilibrio folle. Come in The Road tutto è finito a pezzi, le città sono ammassi urbani mezzi vuoti e pericolosissimi, i due protagonisti si spostano a piedi nella natura selvaggia e la bambina finge in tutto e per tutto di essere un maschio. Il mondo di questo futuro post-apocalittico non è caratterizzato, è un oscuro ammasso di uomini a diversi gradi di minacciosità. I due si nascondono e sono pieni di tecniche di fuga come la coppia di Senza Lasciare Traccia, lui provvede a lei e le insegna tutto come in Captain Fantastic (ma senza quella boria intellettuale, anzi con un sacco di imbarazzi).

Isolati dalla società per necessità e non per scelta (è evidente che se scoprissero che lui gira con una bambina scatterebbe la violenza più dura) vagano in un film che non cerca mai davvero l’azione, ma la riserva a 2-3 momenti isolati, nella prima metà, poco dopo di essa e poi nel finale (con un grandissimo lavoro di colluttazione ben recitata, senza convenzioni da cinema ma con un naturalismo e un realismo senza limiti che paga davvero), preferendo lunghe conversazioni tra i due. Davvero sorprende la maniera in cui quest’impresa difficilissima sia portata avanti da Affleck (sia regista che sceneggiatore), dando un colpo al cerchio del modaiolo (rielaborare il genere in una chiave intellettuale come Storia di Un Fantasma, The Witch o Hereditary) e uno alla botte della solidità narrativa.

Nonostante Light of My Life sembri sempre un eterno inizio, un continuo imbastire una storia che non parte mai, in realtà la maniera in cui gioca intorno ad alcuni temi come la religione (ogni volta che si parla di quel che è avvenuto lo si fa in termini religiosi anche se nulla è spiegato), il legame che crea tra padre e figlia e il modo in cui descrive la difficoltà per una donna di vivere in un mondo di uomini sono potentissimi. Affleck non ha nessuna fretta di affascinare lo spettatore ma anzi sembra scientificamente costruire e preparare la risoluzione del rapporto tra i due.
In un finale che sembra evocare lo scambio di Last Of Us (racconto che molto ha in comune con questo), il film avrà un clamoroso scarto terminando ben prima che si chiuda la trama ma nel momento esatto in cui scopriamo la vera essenza della storia. Basterà infatti una frase, l’ultima del film, a commuovere e dare un grandissimo senso a questo rapporto che (è evidente a quel punto) è stato costruito davvero bene.

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