[Berlinale 2018] Utoya 22. juli, la recensione
Molto serio con i suoi esiti e per nulla disposto a indorare la pillola Utoya 22. juli, conferma come il piano sequenza intero moderno stia diventando un genere a sè
Aiutato dal fatto che effettivamente passò un’ora o poco più tra l’inizio degli spari sull’isola norvegese di Utoya e l’arrivo delle forze dell’ordine, il regista Erik Poppe ha potuto raccontare la sua storia di finzione ambientata dentro un fatto vero (e ispirata ai veri resoconti) simulando il tempo reale. Il film dura un’ora e 30 minuti, e dopo 20 minuti introduttivi tiene incollato il pubblico a 72 minuti di fughe e ricerche disperate della protagonista, in cerca della sorella mentre tutti fuggono, muoiono e si nascondono dagli spari che sentono. Una delle componenti determinanti del film è proprio quanto durino poco 72 minuti in quelle condizioni e paradossalmente quanto durino troppo 72 minuti in attesa di un intervento che inspiegabilmente tardò ad arrivare.
In tutto questo decide anche di adottare un punto di vista particolare, non tanto seguire la protagonista ma far comportare la videocamera come fosse un personaggio. Invece che guardare chi è inquadrato la videocamera si nasconde, alle volte spaventata inquadra per terra per stare più nascosta, sbircia a fatica tra le frasche per capire se qualcuno sta arrivando ed è spesso indecisa su cosa inquadrare, come in preda all’ansia. Nella finzione non è manovrata da qualcuno, non è un film found footage, ma è come se lo fosse.
Forse anche per questo sembra che uno dei parenti più prossimi del film sia Cloverfield, per come tramite quel tipo di approccio dal punto di vista dei protagonisti (che a lungo non capiscono cosa stia accadendo, vedono solo la morte), mette in scena una grande tragedia nazionale vera. Cloverfield trasformava l’11 Settembre nell’attacco immotivato e improvviso di un mostro gigante, mentre Utoya 22. juli è più realistico ma poco cambia nel risultato.