[Berlinale 2018] Utoya 22. juli, la recensione

Molto serio con i suoi esiti e per nulla disposto a indorare la pillola Utoya 22. juli, conferma come il piano sequenza intero moderno stia diventando un genere a sè

Critico e giornalista cinematografico


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Raccontare le tragedie reali da dentro sembra la nuova missione dei lunghi piano sequenza. Film come Il Figlio di Saul hanno contribuito a stabilire il ruolo che quella maniera di intendere e lavorare oggi sui piano sequenza inventata insieme da Alfonso Cuaron e dal direttore della fotografia Emmanuel Lubezki in I Figli Degli Uomini (seguendo qualcuno con macchina a mano, non inquadrando necessariamente tutto e valorizzando il fatto che molto di ciò che avviene non sia mostrato), siano perfetti per creare un punto di vista diverso sulle vere tragedie. La maniera più scontata di dirlo sarebbe “portare lo spettatore dentro gli eventi”, in realtà è qualcosa di un po’ diverso che ha a che vedere, specie in Utoya con il tempo del racconto e che cambia molto di quel che pensavamo sulla percezione dei fatti.

Aiutato dal fatto che effettivamente passò un’ora o poco più tra l’inizio degli spari sull’isola norvegese di Utoya e l’arrivo delle forze dell’ordine, il regista Erik Poppe ha potuto raccontare la sua storia di finzione ambientata dentro un fatto vero (e ispirata ai veri resoconti) simulando il tempo reale. Il film dura un’ora e 30 minuti, e dopo 20 minuti introduttivi tiene incollato il pubblico a 72 minuti di fughe e ricerche disperate della protagonista, in cerca della sorella mentre tutti fuggono, muoiono e si nascondono dagli spari che sentono. Una delle componenti determinanti del film è proprio quanto durino poco 72 minuti in quelle condizioni e paradossalmente quanto durino troppo 72 minuti in attesa di un intervento che inspiegabilmente tardò ad arrivare.

Ci sono moltissimi dettagli che Poppe decide di non risparmiare, volendo fermamente rigirare il coltello nella piaga della tragedia. Il viaggio della ragazza che seguiamo è tempestato di telefonate in lacrime ai genitori, incontri con personaggi in fin di vita, tentativi di salvarne alcuni o aiutare chi è più scosso, fino ad un finale che con coerenza va fino in fondo con i presupposti e non ha intenzione di indorare la pillola allo spettatore.
In tutto questo decide anche di adottare un punto di vista particolare, non tanto seguire la protagonista ma far comportare la videocamera come fosse un personaggio. Invece che guardare chi è inquadrato la videocamera si nasconde, alle volte spaventata inquadra per terra per stare più nascosta, sbircia a fatica tra le frasche per capire se qualcuno sta arrivando ed è spesso indecisa su cosa inquadrare, come in preda all’ansia. Nella finzione non è manovrata da qualcuno, non è un film found footage, ma è come se lo fosse.

Forse anche per questo sembra che uno dei parenti più prossimi del film sia Cloverfield, per come tramite quel tipo di approccio dal punto di vista dei protagonisti (che a lungo non capiscono cosa stia accadendo, vedono solo la morte), mette in scena una grande tragedia nazionale vera. Cloverfield trasformava l’11 Settembre nell’attacco immotivato e improvviso di un mostro gigante, mentre Utoya 22. juli è più realistico ma poco cambia nel risultato.

Ed è ammirabile come dalla Norvegia arrivi un esempio di spettacolo con pochi difetti (gli si può imputare giusto un po’ di prolungata ingenuità nel voler regalare ai personaggi un momento di dialogo troppo lungo e dal ritmo dissonante con il resto) su fatti accaduti da poco che sarebbe stato più facile e sicuro, ma anche meno efficace, raccontare in modi più convenzionali.

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