[Berlinale 2018] Unsane, la recensione

Molto convenzionale nell'approccio e poco originale negli esiti, Unsane si giustifica con una presa di posizione politica e cerca un senso nelle soluzioni tecnologiche

Critico e giornalista cinematografico


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C’è una routine ben collaudata e nota per il cinema e la televisione dietro Unsane, quella della paranoia e della paura del sistema che si rivolta contro il singolo. Una donna come tante altre chiede un consulto perché è stata vittima di stalking nei due anni precedenti e ne vuole parlare, firma dei fogli alla fine, moduli standard le dicono, e si ritrova involontariamente ricoverata in una clinica per malati di mente. Ha firmato lei per essere trattenuta 24 ore. Darà in escandescenza per il sopruso così le 24 ore diventeranno 7 giorni con lo spauracchio di non uscirne più.

Potrebbe essere Ai Confini Della Realtà, se ci fosse un po’ di fantastico, potrebbe essere Black Mirror se ci fosse della tecnologia di mezzo, invece è un film di tensione che inizia con questa oliatissima routine dell’incubo in cui la protagonista è impotente e in mano alla burocrazia, vittima delle istituzioni mentre nessuno intorno a lei le crede, per poi diventare qualcosa di più complesso e politicamente attivo andando avanti. Salta infatti fuori che questo è un modus operandi della clinica in questione: sfruttare l’assicurazione medica di chi si avvicina a loro, fargli firmare con l’inganno il modulo di ricovero e prescrivere la degenza tenendo dentro il paziente fino a che l’assicurazione paga. Il capitalismo medico in azione.

Soderbergh con la stoccata politica (dichiarata a viva voce da uno dei personaggi, se qualcuno magari non avesse inteso bene da sé) vuole dare un colore in più a qualcosa di molto trito e poi, nel portare avanti la storia, stringe ancora più le pareti, mette lo stalker della protagonista a lavorare in quella clinica spostando così il conflitto su un altro piano. Non più lei contro le istituzioni ma lei contro lui, in un confronto di intelligenza e violenza uno contro uno. Di fatto un altro film blandamente collegato al primo.

Non è ben chiaro come mai Steven Soderbergh, da sempre in lotta con gli studios per svincolarsi dalle loro logiche e fare cinema liberamente, da indipendente, senza rendere conto o dividere incassi con chi (sente lui) gli tarpa le ali, abbia girato in grande indipendenza e budget contenuti un B movie così tipicamente da studios. Con un iPhone a fare da videocamera (ma usato esattamente come le altre videocamere), Unsane è un film come molti altri anche meno furbo nell’uso della suspense, anche meno intelligente nelle soluzioni, nelle svolte e nelle implicazioni. Però girato al di fuori del sistema. Più l’opera a cui un esordiente è costretto per farsi notare che quella di un veterano disposto a dimostrare che al di fuori del sistema hollywoodiano può produrre con risultati migliori.

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