[Berlinale 2018] Unsane, la recensione
Molto convenzionale nell'approccio e poco originale negli esiti, Unsane si giustifica con una presa di posizione politica e cerca un senso nelle soluzioni tecnologiche
Potrebbe essere Ai Confini Della Realtà, se ci fosse un po’ di fantastico, potrebbe essere Black Mirror se ci fosse della tecnologia di mezzo, invece è un film di tensione che inizia con questa oliatissima routine dell’incubo in cui la protagonista è impotente e in mano alla burocrazia, vittima delle istituzioni mentre nessuno intorno a lei le crede, per poi diventare qualcosa di più complesso e politicamente attivo andando avanti. Salta infatti fuori che questo è un modus operandi della clinica in questione: sfruttare l’assicurazione medica di chi si avvicina a loro, fargli firmare con l’inganno il modulo di ricovero e prescrivere la degenza tenendo dentro il paziente fino a che l’assicurazione paga. Il capitalismo medico in azione.
Non è ben chiaro come mai Steven Soderbergh, da sempre in lotta con gli studios per svincolarsi dalle loro logiche e fare cinema liberamente, da indipendente, senza rendere conto o dividere incassi con chi (sente lui) gli tarpa le ali, abbia girato in grande indipendenza e budget contenuti un B movie così tipicamente da studios. Con un iPhone a fare da videocamera (ma usato esattamente come le altre videocamere), Unsane è un film come molti altri anche meno furbo nell’uso della suspense, anche meno intelligente nelle soluzioni, nelle svolte e nelle implicazioni. Però girato al di fuori del sistema. Più l’opera a cui un esordiente è costretto per farsi notare che quella di un veterano disposto a dimostrare che al di fuori del sistema hollywoodiano può produrre con risultati migliori.