[Berlinale 2018] The Realm Of Perfection, la recensione

Uno studio a dir poco maniacale su John McEnroe e il suo movimento. The Realm of Perfection è pura estasi per appassionati di movimento ripreso

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sono molte cose che è possibile aspettarsi da The Realm of Perfection, un documentario su John McEnroe, e il film a tratti riesce ad essere un po’ di tutto e contemporaneamente uno studio quasi herzoghiano per potenza, completezza e totale dedizione, su come riprendere lo sport.

All’inizio tramite una brevissima storia dei video didattici sul tennis, cioè la maniera in cui veniva insegnato audiovisivamente dagli anni ‘50 e ‘60, scopriamo il mondo del tennis ripreso e studiato nei suoi movimenti, come si sia passati dal filmare maestri che simulano di giocare a filmare i veri giocatori giocare per mostrare e capire i veri movimenti in una partita. E questo è il primo documentario, cioè quello su chi ha operato la svolta dalle immagini fasulle, create ad arte, a quelle vere, ottenendo dal Roland Garros un posto per filmare tutti gli incontri. La storia di quest’uomo diventato cineasta a tutti gli effetti e la storia dei gesti del tennis.

Il secondo documentario che sta dentro The Realm of Perfection compare quando da lì si passa a raccontare cosa Julien Faraut, il regista di questo film, ha capito avendo avuto accesso a tutto quel materiale girato lungo diversi anni su John McEnroe in particolare, il più maniaco della perfezione tra i tennisti. Le considerazioni sul movimento, su come dalle immagini si capisca quanto non tradisse il tipo di colpo che avrebbe portato fino a che non impattava la palla, come non lasciasse indizi con il linguaggio del corpo agli avversari, sono fantastiche, tra la critica e il commento sportivo.

Poi il documentario cambia ancora e diventa un’analisi del rapporto di McEnroe con la finzione, lui come un attore, le litigate e la rabbia come motore, le espressioni ma soprattutto l’odio per la finzione, l’odio per il dover fingere qualsiasi cosa, anche gli allenamenti, un attore involontario. Qui è evidente come lentamente questo documentario sul tennis cerchi di essere un documentario sul cinema, sul gesto, uno che cita frasi sullo sport e sul tennis di Jean-Luc Godard e del noto critico Serge Daney.

Dalla finzione al rapporto con gli arbitri, avvicinandosi al titolo e al cuore del racconto. Tocca alle clamorose sfuriate contro l’imprecisione degli arbitri, lui, lo sportivo maniaco della perfezione, che non accetta l’imperfezione di chi lo giudica, il pressappochismo. La lotta su ogni punto, l’ira terribile anche con la troupe che filma le incredibili immagini in pellicola che vediamo, perché spesso rumorosa (specie quando riprende a 120 fotogrammi al secondo per poi ottenere il ralenti), invadente e indiscreta. La frustrazione di un uomo che era vittima dell’imperfezione altrui.

Purtroppo la pecca di questo documentario che lavora sul movimento benissimo, con la maniacalità dell’appassionato vero di cinema e l’ispirazione del grande conoscitore di sport, sta nel rivelare troppo tardi il cuore della “storia”. Cioè il fatto che sia anche la cronaca di un anno nella carriera di McEnroe. Lo vediamo nella lunga e bellissima ultima parte sulla finale durata 4 ore contro Ivan Lendl al Roland Garros. Quell’anno McEnroe inseguiva infatti il 100% di risultati positivi. La perfezione assoluta. Perfetto nel gesto, perfetto nell’intenzione, perfetto nella determinazione e in cerca del risultato senza macchia.

Il documentario trattiene quest’informazione per dargli enfasi alla fine, ma l’impressione è che vista la sua scarsa propensione a farsi voler bene dallo spettatore, il suo scarso ritmo a fronte delle tante idee, forse dischiudere un po’ prima un elemento di presa come questo l’avrebbe aiutato ad uscire dal regno dell’orgasmo per soli appassionati di movimento ripreso.

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