[Berlinale 2018] La Terra Dell'Abbastanza, la recensione

Senza un secondo di più di quanto non sia necessario La Terra Dell'Abbastanza sarà con buona probabilità il miglior esordio del 2018

Critico e giornalista cinematografico


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Inizia con un sax fantastico e terribile al tempo stesso portatore di tante promesse d’infelicità, La Terra Dell’Abbastanza l’esordio dei fratelli D’Innocenzo in cui il crimine non è più l’impresa mitologica del cinema ma è una routine senza clamore spogliata di ogni afflato avventuriero. Anche andare ad ammazzare qualcuno è un lavoretto.

Lo scoprono i due protagonisti, all’inizio ignari di tutto mentre mangiano cicorietta in una macchina parcheggiata ridendo e scherzando con una naturalezza fanciullesca che, è subito chiaro, viene da una profondità d’interpretazione che fa pensare al cinema semi-improvvisato fatto bene (invece no, è tutto scritto). Cibo che entra a fatica in bocca, saliva, foga nel mangiare e tantissima amicizia. Come nel cinema classico sono passati 10 minuti dall’inizio e abbiamo già capito tutto, vedendo l’agro e il dolce dosati benissimo. Poi inizia la trama.

I due investono una persona per sbaglio e scappano spaventati per rifugiarsi dal padre di uno di loro, un buono a nulla che vive nel caos e gioca alle slot machine elettroniche tutto il giorno. Frequentano l’istituto alberghiero, non hanno grandi sogni ma solide realtà in mano (una ragazza, pochi spicci fatti consegnando pizze, e soprattutto l’un l’altro, in un legame di ferro). La scoperta che la persona investita era un nemico della mala locale gli dà l’opportunità di entrare nel crimine, spinti sempre dal padre. E qui, dopo che è partita la trama, parte il film.

La Terra Dell’Abbastanza è tecnicamente impressionante, dura 90 minuti e non ha un secondo di troppo, tagliato con precisione anche grazie a Marco Spoletini (già collaboratore di Matteo Garrone, Alice Rohrwacher e Daniele Vicari) non si perde e va dritto al punto con una visione della periferia sfrondata di ogni poesia (grazie al cielo!), di ogni pomposa retorica da quartieri alti che scendono nei bassi e da ogni intento estetizzante. Il punto è che i fratelli D’Innocenzo non hanno nessuno dei difetti soliti dei cineasti italiani, sono bravissimi a scrivere scene fluide e scorrevoli e poi a concepire delle inquadrature che parlino ancor più della scrittura, in cui la disposizione delle persone e la prospettiva hanno sempre un senso. Non è poco per niente, ed è la caratteristica che rende gran parte del cinema classico (hollywoodiano ma anche italiano) quello che è: leggero e significativo al tempo stesso. Da ogni punto di vista questo, a tutti gli effetti, non sembra in nessun momento il film di due esordienti ma quello di due navigati cineasti.

Nonostante la trama però sarebbe sbagliato inserire i fratelli D’Innocenzo nel grande filone del cinema criminale recente. Non hanno proprio quell’atteggiamento epico verso il crimine, anzi sembrano attratti dalla capacità dei due amici di non lasciarsi toccare da quel che fanno. Iniziare a sparare, minacciare, far prostituire e vendere esseri umani come fosse una normale attività, mentre le inquadrature la recitazione ci dicono tutt’altro, cioè che forse non sono così impermeabili. Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, i due protagonisti, in questo si distinguono per un lavoro sulle sfumature e la lenta discesa all’inferno che non si vede spesso e di cui c’è di che essere fieri.

Per quanto nel grande e rocambolesco finale il film ceda ad un po’ di pietismo a cui aveva eroicamente resistito fino a quel punto, lì svela anche di essersi posto per questa che è la storia di un’amicizia un obiettivo difficilissimo e molto rischioso di cui non ha la minima paura: raccontare una storia in cui le vittime sono i carnefici, in cui paradossalmente si sta meno dalla parte di chi subisce il crimine e più da quella di chi lo perpetra, per dimostrare che nel grande giro della violenza, chi la impone può rimanerne ferito tanto quanto chi la riceve.

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