[Berlinale 2018] Season Of The Devil, la recensione

Immediatamente simpatico, molto vitale, pieno di idee e di modi di usare il mondo reale come arma del cinema, Season of The Devil conquista con calma

Critico e giornalista cinematografico


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C’è subito una simpatia fortissima per questo nuovo film di Lav Diaz, un musical depauperato di tutto, perfino della musica! Tutti cantano a cappella, ognuno ha una o più melodie a sé dedicate, tutte originali e diverse, alcune orecchiabili, tutto ambientato in mezzo alle strade, senza soldi ma anche senza rinunciare ad una componente (inevitabilmente relativa e proporzionata) di spettacolo tipica del musical. Season Of The Devil insomma non rinuncia a nessuno dei luoghi comuni del genere, non fa un musical sui generis ma un musical autentico, solo ridotto in scala e impoverito nei mezzi senza però che ne venga impoverito il linguaggio cinematografico.

Anche la trama ha i semplicismi tipici del genere, e mostra un gruppo di milizie armate che terrorizzano la popolazione e scientificamente pianificano la distrazione di massa, la creazione di spauracchi, mitologie, falsità e nemici per poter controllare il popolo e imporre un nuovo dittatore. Vediamo i personaggi subire le violenze, provare a ribellarsi, rifiutare la lotta e infine soccombere, cantando parole di libertà e in certi momenti venendo guidati da apparizioni e sogni ad occhi aperti. Se il termine “realismo magico” non esistesse già (e non identificasse altro) sarebbe perfetto per descrivere quel che si vede in questo film, ambienti e scene di un realismo tangibile penetrati dalla magia della finzione e di una messa in scena mai realistica. Una maniera unica di essere affascinato ma anche di rifiutare il realismo.

L’amore che questo cineasta ha per le luci naturali e quelle dei lampioni nei vicoli dei villaggi di provincia di notte è encomiabile, e lo è anche come usi le prospettive con punto di fuga ogni volta diverso per dare movimento ad inquadrature quasi sempre ferme, in cui si vive di montaggio interno e nelle quali la disposizione dei personaggi crea sempre interesse. Tuttavia non è vittima di questo approccio e di questi amori per le illuminazioni e le “scene” che si trovano in giro, perché le penetra con momenti di grande falsità, ad esempio quando il poeta (forse il più protagonista tra i protagonisti) vede uno spirito guida materno in una variazione di poco più irreale delle consuete immagini fisse dentro le quali Diaz fa muovere i suoi personaggi. Cambia poco ma è tutto molto chiaro.

Certo il cinema di Lav Diaz non è propriamente uno che vada incontro al pubblico (ma nemmeno realmente elitario o noioso, è lungo e calmo semmai, questo dura 4 ore che tuttavia non pesano), ma è anche uno dei pochi realmente “digitali”. Diaz fonda i suoi film e la loro messa in scena su tutto quello che il nuovo cinema digitale low budget rende possibile e che invece era sconosciuto alla pellicola. Le lunghe riprese, le lunghe durate senza aumentare il budget, l’uso di luce naturale, la visibilità di notte... Questo regista filippino riesce a fare di necessità splendida virtù trasformando l’arredo in geometria, gli oggetti in punti di luce inaspettati, le colonne in separazioni del fotogramma e anche un taglio nella parete che dà sulla foresta diventa una cornice verso un altro evento come potrebbe fare Spielberg (sebbene con un trentesimo del suo ritmo). Di fatto più degli altri cineasti Lav Diaz mette in scena tramite il mondo reale film che sono possibili solo perché esiste la tecnologia di ripresa digitale.

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