[Berlinale 2018] Prayer, la recensione

Prayer è cinema di fede che non riesce nè a metterla in discussione, nè a lavorare sulla presenza di qualcosa di superiore nel nostro mondo

Critico e giornalista cinematografico


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Che Cedric Kahn avesse le migliori intenzioni è subito evidente. Da quando il suo protagonista arriva con un taglio in fronte, fatto chissà dove, chissà come, nel centro di recupero cristiano in mezzo ai monti (portato da chissà chi). La comunità è fatta da ragazzi come lui che sono passati attraverso un inferno e lì hanno trovato l’atmosfera per purificarsi. Il luogo, le montagne, il freddo, il lavoro con le mani, la fatica di giorno e i dolori terribili di notte per l’astinenza, il vomito e i tremori, tutto è messo in scena benissimo. C’è qualcosa che si agita dentro questo ragazzo poco più che ventenne, un male terribile mentre intorno a lui altri personaggi che non vediamo quasi mai in volto, in silenzio lo aiutano ricevendo solo insulti in ricambio.

Prayer, fin dal titolo, sarà un film di religiosità, lo sbocciare in un ragazzo di qualcosa di trascendentale e il contrasto di questo con le passioni terrene. Eppure in tutto un film pieno di eventi che non risparmia piccole svolte e accadimenti clamorosi (compresa una nottata in montagna, solo, perso, appeso a Dio come Ingrid Bergman in Stromboli, Terra di Dio) Kahn non trova spazio per dare alla storia una piega significativa. Il passaggio dall’inferno (che non vediamo perché precedente ai fatti del film), al purgatorio della comunità fino al paradiso ricercato è davvero insufficiente.

Prayer non ha intenzione di raccontare la trascendenza, quella forma di serena accettazione della religione che si avverte nei film più credenti. Non è permeato di quella clamorosa evidenza trascendentale di film come Ordet, Diario di Un Curato di Campagna o per l’appunto lo Stromboli di Rossellini, non è problematico come i film di Scorsese, in cui un corpo imperfetto fatto di carne, debole e terreno lotta con uno spirito più elevato e infine non ha nemmeno la forza di astrarsi dalla religiosità e metterla in questione. Ci sono sparsi per il film momenti in cui sembra che la religione possa essere vista come una nuova droga per qualcuno orfano di una dipendenza, altri in cui sembra di intravedere nella maniera in cui le suore usano schiaffi e abbracci al pari dei sistemi di “distruzione” e “ricostruzione” con cui cinema e tv ci raccontano le conversioni all’islam da parte dei prigionieri di guerra. Ma nemmeno questo interessa a Prayer.

Alla fine l’esito del film sarà il più banale: il dilemma di un ragazzo non impermeabile ai desideri di ogni altro ragazzo che arriva a pensare di volersi fare prete. “Per la prima volta nella mia vita non mi sento solo” dirà, e la sua parabola sembrerà compiuta, che arrivi o meno alla decisione di prendere i voti. La religione come porto franco e unica possibile cura al male della vita. Una parabola laica che ha il grado zero della capacità di mettere in dubbio gli assunti più banali e nemmeno l’abilità di comunicare qualcosa di superiore tramite la messa in scena di un’evidenza trascendentale.

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