[Berlinale 2018] Human, Space, Time and Human, la recensione
Con Human, Space, Time and Human Kim Ki duk tocca il vertice basso della sua carriera, avendo deposto ogni voglia di creare qualcosa di sofisticato e coerente
Un gruppo di persone è su una nave. Non sappiamo come mai, non sappiamo con quale scopo né quale sia il loro viaggio, ma tutti sono su questa nave da guerra (non da crociera) e sono evidentemente rappresentanti di diversi segmenti della società. Un importante politico, il comandante della navi e i marinai, una coppia di sposini ingenui, dei truffatori, dei malavitosi, delle prostitute, un anziano che appare come un monaco e una coppia purissima vestita di bianco). Su questa nave sono in viaggio e ben presto, nel primo capitolo chiamato Human, iniziano i contrasti tra chi vuole dominare, chi subisce, chi non ci sta e chi prospera.
È questa la parte peggiore di tutto il film (e la più lunga) in cui gli eventi accadono contro ogni logica, scatenando solo fastidio. Arrivati al capitolo Time finalmente giungeremo nella “zona Kim Ki duk”, quel momento in cui la violenza comincia a unirsi ad immagini che evocative lo sono sul serio, intuizioni tra la filosofia orientale e la crudezza del mondo che viviamo capaci di spazzare via il bisogno di parole. Ma è pochissimo, davvero pochissimo, dopo un’ora e mezza di follia girata male, recitata peggio e scritta senza nessuna coerenza. Un finale con il ritorno di Human riporterà il film nei lidi peggiori, lasciando la netta impressione che stavolta qualcosa sia andato davvero troppo storto per essere raddrizzato.